L’apprendimento come crescita
La mia intenzione principale nello scrivere questo articolo era raccontare quello che, all’interno di una delle aziende di cui sono socio e in cui lavoro [1], abbiamo fatto per creare un ambiente orientato all’apprendimento.
Si è trattato di un “esperimento” che ci ha portato, attraverso una serie di tentativi, valutazioni e aggiustamenti a mettere a punto un “sistema organizzativo di apprendimento” in cui le persone avessero la possibilità di apprendere nuove competenze, crescere come professionisti, sperimentare modalità di conoscenza collaborativa, riportare ad altre persone — interne ed esterne all’azienda — quanto scoperto e imparato nell’ambito di questo sistema di apprendimento.
Ma nel raccontare tutto questo volevo sicuramente evitare due rischi: quello del parlare “di quanto siamo bravi solo noi” e quello di raccontare soltanto le pratiche — pur importantissime — senza fare cenno ai valori e ai principi teorici che stanno alla base delle stesse.
Le lezioni apprese
Esistono infatti svariati esempi e diversi autori che hanno messo in luce, già da molti anni, come l’apprendimento continuo dei singoli e dei gruppi sia una chiave fondamentale per ogni organizzazione. Tra questi, un posto di rilievo merita sicuramente l’opera di Peter Senge: il suo libro The fifth discipline [2] la cui prima edizione del 1990 è tradotta anche in italiano [3] mantiene tutto il suo valore dopo quasi un trentennio… E uno dei concetti fondamentali del libro è che un’organizzazione che apprende continua a espandere la sua capacità di creare il proprio futuro.
Una base di conoscenza
Prima di illustrare il percorso che abbiamo intrapreso per cercare di rendere la nostra azienda una organizzazione che apprende, vediamo allora di riassumere, per quanto è possibile, alcuni dei concetti davvero illuminanti che si trovano proprio nel libro di Peter Senge appena citato.
Invenzione e innovazione
A tal proposito, facciamo subito notare come, in un panorama sempre più affollato di autori e titoli che affrontano le tematiche dell’organizzazione aziendale in senso lato e con approccio “agile”, La quinta disciplina resti un testo fondamentale, che tutto sommato non risulta datato e che ha anticipato proprio certi temi cari al movimento Agile, il cui Manifesto, a ben guardare, è arrivato dieci anni dopo.
Questo, se ancora una volta ce ne fosse bisogno, ribadisce il concetto che determinati argomenti Lean/Agile, che oggi a livello mainstream vengono considerati “nuovi”, sono in realtà in giro ormai da parecchi anni.
E conferma quanto viene detto proprio ne La quinta disciplina a proposito dei concetti di invenzione e innovazione: occorre tempo e ulteriore sviluppo affinché una invenzione si trasformi in qualcosa di adottato in maniera larga e sostenibile, creando reale innovazione.
Quattro discipline
Ma quale è questa quinta disciplina che dà il titolo al libro? Prima arrivare a parlarne, passiamo in rassegna le altre quattro “discipline” che è necessario affrontare e comprendere:
- modelli mentali
- costruire una visione condivisa
- apprendimento di gruppo
- padronanza personale
Modelli mentali
In una organizzazione, di qualsiasi tipo, i modelli mentali sono quelle ipotesi radicate ma della cui presenza — e a volte incombenza — non siamo consapevoli; in genere non ci rendiamo conto di avere certi modelli mentali che poi costituiscono la cultura aziendale e condizionano i comportamenti.
Nel libro, si utilizza una potente metafora, quella di “voltare lo specchio all’interno”: occorre cioè osservare questi modelli mentali di cui inizialmente non ci rendiamo conto e sottoporli ad un rigoroso esame.
Dal punto di vista “operativo”, occorre ad esempio attivare conversazioni “ricche di apprendimento” che mettano alla prova le nostre convinzioni. Ed è importante bilanciare adeguatamente tale indagine sui modelli con la propugnazione delle proprie idee: le persone dicono come la pensano e si aprono all’influenza degli altri.
Costruire una visione condivisa
Qui c’è un concetto importante, che è quello della visione condivisa, ma non bisogna dimenticarsi del verbo: “costruire”. Per essere realmente condivisa, tale visione non deve venir calata dall’alto, ma realizzata insieme. Se è genuina, allora le persone che ne hanno condiviso la costruzione sono incentivate ad apprendere per realizzarla; non è una imposizione, ma vogliono farlo.
Questa disciplina è la capacità di fare emergere le “immagini del futuro”, che promuovono un impegno personale, sconfiggendo l’acquiescenza. Si costruisce una visione condivisa facendo una sintesi delle istanze dei singoli, producendo poi principi e pratiche di orientamento.
Apprendimento di gruppo
L’apprendimento di gruppo è vitale perché oggi le unità basilari di apprendimento sono i gruppi, non i singoli.I gruppi che apprendono producono risultati straordinari e inoltre i singoli membri crescono più rapidamente.
Questa disciplina è un elemento decisivo per il successo: l’organizzazione non apprende se non apprendono i gruppi. Alla base dell’apprendimento c’è lo scambio di informazioni, il confronto e la costruzione di una conoscenza collaborativa.
Ma nel confronto occorre rendere ben chiara la differenza tra discussione, che è un “botta e risposta” di posizioni che però non porta a una sintesi, e dialogo — etimologicamente un “discorso che attraversa” e va oltre — che porta a un arricchimento reciproco e un ulteriore livello di conoscenza.
Padronanza personale
Con padronanza personale si intende quella capacità di chiarire e approfondire continuamente la nostra visione personale, di concentrare le nostre energie e di vedere la realtà in modo obiettivo. Chi possiede padronanza è in grado di percepire con chiarezza le cose di maggiore importanza.
Per arrivarci bisogna apprendere, per tutta la vita. In questo senso esiste un legame diretto tra l’apprendimento del singolo e quello dell’organizzazione.
La quinta disciplina
E la quinta disciplina? È la disciplina che integra tutte le altre: senza questa fifth discipline, le parti evolveranno autonomamente senza unitarietà. Si tratta del pensiero sistemico — system thinking per gli irriducibili dell’inglese sempre e comunque — cioè di quella mentalità che consente di pensarci non separati dal mondo come organizzazione.
È la visione olistica che guarda al tutto e non solo ai singoli elementi, ci permette di vedere con maggiore chiarezza la causa dei nostri problemi per poi capire che il problema, spesso, siamo noi. Ci restituisce il nostro destino che rimane ancorato nelle nostre mani.
L’esempio del temporale
A tal proposito è celebre un passaggio del libro di Peter Senge che ben descrive la visione globale di un sistema attraverso un esempio di facile comprensione:
Le nuvole si ammassano, il cielo si rabbuia, le foglie si alzano verso l’alto: sappiamo che pioverà. Sappiamo anche che dopo il temporale la pioggia andrà ad immettersi nella falda freatica a chilometri di distanza e che domani il cielo sarà chiaro. Tutti questi eventi sono lontani nel tempo e nello spazio, eppure sono tutti collegati nell’ambito dello stesso sistema. Ognuno di essi ha influenza sul resto, un’influenza che normalmente è nascosta alla vista. Si può comprendere il sistema di un temporale soltanto contemplando l’intero, non una qualsiasi singola parte di esso.
Un’immagine come questa rende chiaro come interconnessione e interazione siano le caratteristiche chiave che differenziano un sistema vero e proprio da una raccolta di elementi disconnessi.
Che cosa ci impedisce di apprendere?
Avviciniamoci alla parte “operativa” del nostro articolo venendo a descrivere alcuni comportamenti tipici che, secondo Senge, rappresentano classici impedimenti all’apprendimento:
- io sono la mia posizione;
- il nemico è là fuori;
- l’illusione di farsi carico di qualcosa;
- l’eccesso di concentrazione sugli eventi;
- la parabola della rana bollita;
- l’illusione di apprendere dall’esperienza;
- il mito del management team.
Eccoli spiegati brevemente.
Io sono la mia posizione
Quando si chiede alle persone cosa fanno per vivere, la maggior parte di noi descrive i compiti che svolge ogni giorno, non lo scopo dell’impresa più ampia.
La maggior parte delle persone percepisce solo un orizzonte molto limitato della loro attività. Quando si vede all’interno di un quadro più ampio, percepisce comunque un “sistema” sul quale ha poca o nessuna influenza.
“Fanno il loro lavoro”, mettono a disposizione il loro tempo e cercano di far fronte a forze al di fuori del loro controllo.
In questa “configurazione”, diventa difficile creare gruppi che apprendano e ancor più un’intera organizzazione che lo faccia.
Il nemico è là fuori
Quando le cose vanno male, ciascuno di noi è propenso a scoprire qualcuno o qualcosa da rimproverare al di fuori di se stesso. Alcune organizzazioni fanno ascendere questa propensione a un comandamento: “Troverai sempre un agente esterno da rimproverare”.
In realtà, “là fuori” e “qui dentro” sono in genere solo due parti di un unico sistema: senza questa consapevolezza, diventa difficile apprendere ciò che possiamo fare “qui dentro” in merito a problemi che ci appaiono “là fuori”.
L’illusione di farsi carico di qualcosa
Oggi è in voga l’essere “proattivi” di fronte a problemi difficili. Essere proattivi è diventata una raccomandazione fin troppo abusata, perché viene vista come antidoto all’essere “reattivi”, che ha una connotazione più passiva.
Ma in realtà troppo spesso, l’”essere proattivi” significa solo essere reattivi a una velocità più alta: magari non aspetto che un evento si presenti in tutta la sua completezza prima di muovermi, ma mi attivo non appena ne percepisco i primissimi sintomi. Di fatto, però questa è sempre una reazione a qualcosa.
L’essere veramente proattivi implica uno sguardo ampio, una approccio sistemico ai nostri problemi, che non si limiti a reagire a ciò che si presenta in superficie, ma sia invece il tentativo di agire su livelli più profondi dell’intero sistema.
L’eccesso di concentrazione sugli eventi
Nelle organizzazioni si è concentrati troppo sugli eventi: le conversazioni sono dominate dalla preoccupazione per gli eventi, per quello che è appena successo, succede, che sta per succedere.
L’apprendimento creativo non c’è se tutto è dominato dagli eventi a breve termine che costringono le persone, metaforicamente, a fare la proverbiale corsa del criceto…
La parabola della rana bollita
La storiella immaginaria dovrebbe ormai essere nota a tutti, ma la riassumiamo così: una rana nuota dentro un pentolone d’acqua fredda; si accende la fiamma sotto la pentola e l’acqua si riscalda a poco a poco. Inizialmente la rana continuerà a nuotare trovando piacevole l’acqua tiepida che poi diventerà calda, ma senza causare reazioni nell’anfibio. A un certo punto, però l’acqua diventerà troppo calda per la rana, ma ormai essa si è indebolita e non ha la forza di reagire. Rimane immobile e non fa nulla e dopo qualche minuto la rana muore bollita…
Non eviteremo il destino della rana finché non impareremo a rallentare e a vedere i processi graduali che spesso rappresentano le minacce maggiori. Il cambiamento lento e graduale può essere serio impedimento al processo di apprendimento.
L’illusione di apprendere dall’esperienza
L’apprendimento più potente deriva dall’esperienza diretta. Chi potrebbe mettere in dubbio questa affermazione? Facendo le cose le impariamo: è così che da bambini siamo diventati capaci di camminare, pedalare in bicicletta, nuotare.
C’è però un aspetto da considerare in questo tipo di processo: impariamo dall’esperienza diretta perché otteniamo un feedback immediato delle nostre azioni. Ma cosa succede quando non possiamo più osservare le conseguenze di quello che facciamo? Quando le nostre azioni comportano conseguenze che sono al di là del nostro orizzonte di apprendimento, diventa impossibile imparare dall’esperienza diretta.
Il mito del management team
Di fronte a tutti problemi che si presentano — e alla incapacità di apprendere — molte organizzazioni adottano la tipica soluzione del gruppo di gestione: si forma un team di esperti che dovrebbe essere in grado di risolvere il problema. In realtà, spesso questi team finiscono per concentrarsi solo su un aspetto e perdono di vista il quadro globale. Oppure diventano strutture all’interno dell’azienda in cui ci si protegge vicendevolmente oppure si protegge la propria area: l’apprendimento è comunque frenato e il rischio del micromanagement accresciuto.
E l’agilità?
Come dicevamo all’inizio dell’articolo, le riflessioni de La quinta disciplina predatano il Manifesto Agile (2001) di una decina d’anni. Ma c’è un legame tra i due testi?
A ben guardare, un legame c’è ed è importante. Non è un legame diretto, ma decisamente interessante. Anzitutto, l’affermazione presente nel Manifesto Agile:
individui e interazioni più che processi e strumenti
mette chiaramente in luce l’importanza della relazione, dell’interazione che il pensiero sistemico pone a fondamento della sua visione. Ma c’è di più: l’introduzione del Manifesto recita
Stiamo scoprendo modi migliori di creare software,
sviluppandolo e aiutando gli altri a fare lo stesso.
In quello “scoprendo” è insito il concetto di apprendimento, che oltretutto è un apprendimento collaborativo (“aiutando gli altri”). Proprio nella parte meno citata dell’Agile Manifesto, in quella che viene in genere tralasciata, è invece presente un grosso richiamo al gruppo che apprende.
Un caso d’esempio: 4 mosse per l’apprendimento
Tutta questa riflessione non avrebbe grande senso se non fosse “addentellata” a un’esperienza reale. Nella nostra azienda cerchiamo di favorire un ambiente in cui l’apprendimento divenga una pratica costante e finisca per connotare la cultura dell’organizzazione.
Chiaramente si è trattato di un processo in cui si è andati avanti anche con “esperimenti”, aggiustamenti del tiro. E anche il sistema attuale — che ci pare funzionare e grazie al quale riteniamo di aver elevato la qualità del lavoro che svolgiamo e del prodotto che rilasciamo ai clienti finali — non è scolpito nella roccia. Con il tempo e i cambiamenti inevitabili, esso subirà sicuramente degli ulteriori aggiustamenti e magari anche dei veri e propri stravolgimenti. Chi lo sa? Del resto, come scrivevamo sopra… “stiamo scoprendo”.
Abbiamo voluto riassumere la nostra esperienza in 4 mosse; ma, come alle quattro discipline si aggiungeva la quinta, anche qui si aggiunge un’ulteriore mossa, che in questo caso è una premessa, una mossa 0.
Mossa 0: lavoro in team
Partiamo dal principio che siamo una società di sviluppo software che adotta metodi Agile, segnatamente Scrum. Il lavoro quotidiano, pertanto, è già vissuto in una (rigorosa?) dimensione di team crossfunzionale e autorganizzato. Per tutto il resto si parte da qui.
Mossa 1: Gilde
La prima mossa è rappresentata dalle gilde. Gilda è parola di origine germanica che indicava nel Medioevo le corporazioni di arti e di mestieri del mondo germanico e anglosassone. Con il passare del tempo, il termine ha preso il significato di “associazione”, “gruppo organizzato” intorno a un interesse comune: si pensi alle gilde di videogiocatori, ad esempio.
Nel nostro caso, una gilda è un insieme di persone che si forma intorno a un interesse, per accrescere le proprie conoscenze in una dimensione di gruppo. Pur potendosi dare il caso, esse non replicano i team Scrum del lavoro quotidiano, ma sono trasversali ad essi.
Come funzionano? Dopo la scelta dell’argomento e la creazione di una gilda (vedi Mossa 2, più sotto), i suoi membri si incontrano, all’interno dell’orario di lavoro, per 4 ore a settimana lungo un arco di 4 mesi. In questi incontri, vengono condivise delle conoscenza, vengono studiati in gruppo dei temi. Visto l’ambito tecnico in cui lavoriamo, si tratta di linguaggi e tool (Kotlin, Elixir, Go, Docker…) ma anche di argomenti più generali (design patterns, clean code, bot, VR…).
Mossa 2: Camp
Per focalizzare questo sistema delle gilde e farlo funzionare al meglio, l’azienda organizza con cadenza quadrimestrale un camp, cioè una giornata condotta con la modalità della open conference.
Grazie a questa formula, il camp al mattino è open space su temi diversi dalle gilde che si concludono: di solito sono temi affrontati nei team e spesso ispirano le nuove gilde. Questa condivisione di quanto si è appreso è un momento veramente “fondante”. Quando il camp si conclude, si saranno anche create le nuove gilde con i relativi argomenti per i quattro mesi successivi.
Mossa 3. Partecipare alla community
In un’ottica di “mutualità” si apprende da altri, si può insegnare ad altri, ci si lascia ispirare, si ispira, ci si lascia “contaminare”, si “contamina”. Una community vive e funziona anche di tali elementi. Per questo si favorisce la partecipazione alle varie conferenze, momenti di incontro e confronto della comunità.
La decisione di quali conferenze seguire è autonoma per le varie persone o gilde e ci sono anche degli incentivi: 3 giorni all’anno e 500 € di budget a carico dell’azienda proprio per favorire una presenza partecipata.
Da questo poi, nasce per qualcuno anche l’esigenza di partecipare nel ruolo di speaker: è un segnale di padronanza dell’argomento, ma ha anche il senso di restituire a una comunità ciò che si è ricevuto dall’esperienza con il proprio gruppo. E poi accresce l’autostima.
Mossa 4. Coaching tecnico
Se imparare in gruppo, in maniera autoorganizzata con il sistema delle gilde, è sicuramente una delle chiavi per creare una organizzazione che apprende, ci sono situazioni in cui il contributo esterno di esperti su certi temi si rende necessario e facilita ulteriori salti di livello.
Per questo si favorisce l’apprendimento anche durante il lavoro quotidiano, tramite un coaching tecnico svolto avvalendosi di professionisti esterni.
Conclusioni
Se vogliamo guardare alle nostre organizzazioni e ai nostri percorsi professionali in un’ottica sistemica, dobbiamo affrontare la realtà con uno sguardo globale e un approccio olistico. Non è teoria… anzi, la prima cosa da fare è proprio liberarsi della dicotomia “teoria vs. pratica”: vederle come separate, e privilegiare l’una sull’altra, è un errore di riduzionismo che di certo non si accorda con quanto ci insegna la quinta disciplina.
In quest’ottica ho tentato di raccontare, con l’esempio pratico che meglio conosco, sia i fondamenti “teorici” che l’operatività “pratica” di una organizzazione che apprende: non un prima e un dopo, non un fuori e un dentro, ma due facce, non separabili, della stessa medaglia.