Originariamente pubblicato nel 2016 [n.d.r.]
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Rispondere ai grandi interrogativi della vita…
Una vecchia canzone di Vasco Rossi recita “Credi che basti avere un figlio per essere un uomo e non un coniglio?”…
All’epoca non avevo dato un significato preciso a quella frase… a 16 anni del resto non ti fai troppe domande… e probabilmente mi accontentai di sapere che era una cosa da ribelli… Già ascoltare Vasco all’epoca era una cosa da ribelli, ancora non lo conosceva quasi nessuno…
Con gli anni, piano piano, iniziai a pensare che stessi imparando un sacco di cose e lentamente cominciai a credere di non aver più nulla da scoprire. Col tempo mi stavo costruendo un piedistallo di certezze, un fortino di verità. A un certo punto, dopo venti anni di onorato servizio nella vita lavorativa, ho iniziato a pensare di sapere il fatto mio.
Poi di colpo, un bel giorno, tutto è tornato in discussione. È arrivata la dimostrazione che non si è mai al sicuro, che non ci sono certezze e che ogni uomo deve sempre essere pronto a gestire momenti difficili…
Quando uno si pensa al sicuro all’interno delle mura delle proprie verità, è proprio allora che il terreno più solido inizia a liquefarsi sotto i piedi… costringendo a riconsiderare tutto, a riscoprire le proprie profonde verità, a rinnovarsi nella sua autoconsapevolezza.
Questo momento di catarsi per me si è paventato qualche giorno fa: me l’aspettavo… non è giunto improvviso… Mi sono sempre detto che l’avrei saputo gestire:
“diamine!… sono grande, saprò certamente superare abilmente questa cosa”.
Invece mi sono ritrovato del tutto incapace di reagire quando mio figlio, sangue del mio sangue, quel piccoletto che credevo mi amasse e mi adorasse come suo unico supereroe, angelicamente mi ha chiesto:
“Oh babbo, ma te che lavoro fai?”
Sì, ha detto “babbo” e ha usato il “te” al posto del “tu”: a Firenze si dice “babbo” e si parla così. Se avesse detto “papà” me la sarei cavata abilmente, avrei certamente svicolato con un “Oh grullo, tu lo sai che io sono i’ babbo… ‘papà si dice a Milano o a Roma, ma qui siamo a Firenze…” e con l’occasione avrei potuto cambiare discorso.
Ma lui è nato a Firenze, e perché avrebbe dovuto chiamarmi ‘papà’?
Già… perché?
“Giovanni non prendere tempo, non siamo a scuola, la campanella questa volta non ti salverà…”, “Rispondi! Di’ qualcosa di sensato… di’ qualcosa almeno…”.
No quello era il film di Nanni Moretti… Grande Nanni, come in quella scena in cui lo studente gli fa una domanda sul quadrato magico e lui non sa rispondere sperando nella fine della lezione.
“Giovanni non perdere tempo, qui non siamo in un film di Nanni Moretti…” e lui è sempre lì che ti guarda.
Dai cavolo, Giovanni, prendi un grosso respiro e rispondigli…
“OK Mattia… ora ti dico che lavoro faccio…”
Sono un Agile Coach!
Ecco, l’ho detto!
Sembra non averla nemmeno presa tanto male… Ma che cavolo però… anche io… Potevo fare il dottore? cioè sono un dottore, ma intendo dire il dottore dottore, quello vero, quello che tu cura…. No meglio, il ferroviere! Il fornaio, ecco, come il nonno…. Quello si che si capisce e si può spiegare.
No, prima mi laureo in informatica, poi mi metto a fare il consulente e infine il coach. Ma diamine! Che cosa mi è saltato in mente quel giorno?
Mio figlio è alle elementari e, quando mi vede andare via di casa con la borsa piena di Lego, mi guarda sempre con molto stupore misto a orgoglio (almeno io me la sono raccontata così). L’ha detto pure a scuola ai suoi amici: “I’ mi’ babbo lavora alla Lego”. In realtà gli avevo detto che lavoro con il Lego. Da allora sono un eroe… E per adesso va bene così, ma quando avrà 16 anni che cosa penserà “d’ì su babbo”?
Via su… non è una tragedia: Agile Coach è un rispettabilissimo lavoro. Aiuto le persone nelle aziende a lavorare meglio e con maggiore soddisfazione per tutte le parti; la gente mi fa i complimenti perché spesso riesco a dar loro una visione differente aiutandoli a uscire da una situazione intricata… Scrivo articoli, partecipo a conferenze, ogni tanto vado pure a parlare in inglese da qualche parte….
Servirà a qualcosa no?
La situazione si complica
Pensavo lì per lì di averla sfangata… ma il peggio mi aspettava dietro l’angolo.
Il giorno dopo, il piccoletto lo ripete a tutti i suoi amici… perfino alla maestra… adesso sono veramente nei guai. All’uscita di scuola mi avvicino lentamente. Sento che oggi succederà qualcosa. Cosa mi è saltato in mente di dire a mio figlio che sono un agile coach. Sono cose che poi ti si ritorcono contro… Ho fatto lo spavaldo, si sono stato arrogante…
Mi avvicino, faccio un gesto a mio figlio… “il Babbo è qui, ti prendo e andiamo a casa e ci dimentichiamo di tutto”. Dissimulo sicurezza, ma lo sguardo del condannato a morte tradisce la mia paura… Mi ripeto che tra poco tutto sarà finito… e in fondo dopo questa prova niente potrà essere peggio.
Ce l’ho quasi fatta, Mattia al mio fianco, ci incamminiamo verso casa.
La maestra mi vede…
Mi chiama: “Signor Puliti? Venga, prego… venga che le devo parlare…“. Mi fermo, mi giro e mi muovo lentamente verso di lei…. ormai rassegnato al patibolo… le gambe sono molli…
D’un tratto, una scarica di adrenalina mi avvampa… scuote il mio corpo…No! Non può finire così!
Capisco che devo reagire! Vabbene… le confesso tutto! Le spiego che lavoro faccio… le racconto tutto dall’inizio… l’ha voluto lei…
Il fornaio, dovevo fare il fornaio… sarebbe stato più semplice!
Docente, consulente, mentore, coach e… agile coach
Tutto ebbe inizio nel 1994 quando, durante l’università, iniziai a fare qualche lavoro come programmatore e come insegnante in aula. Fu un’esperienza molto interessante, anche se intrisa da una discreta dose di incoscienza. i primi tempi spesso andavo in aula a far vedere cose che avevo studiato appena poche ore prima. A volte mi ritrovavo a far funzionare gli esempi nella pausa pranzo e magicamente nel pomeriggio mi ritrovavo un’aula di studenti che provavano per la prima volta il data binding o l’event programming delle prime interfacce grafiche.
Con gli anni ho accumulato una buona dose di esperienza in progetti a cui ho partecipato e in cui lavoravo. È stato un periodo in cui ho imparato molte cose alternando momenti di lavoro fianco a fianco agli sviluppatori alla realizzazione di prodotti software, a momenti di docenza in aula. Con gli anni sono diventato più esperto, aggiungendo ogni volta un tassello alle nozioni che andavo a raccontare in aula.
Oltre a insegnare, poi spesso affiancavo i team di sviluppo fornendo consigli e indicazioni direttamente sui progetti. Ero diventato un consulente che svolgeva il classico Training on the job. Con le competenze accumulate negli anni, riuscivo a supportare una azienda sulla quasi totalità delle tecnologie Java EE.
Successivamente, sono passato dal fornire il mio supporto per la parte programmativa a quella in ambito architetturale. E poi ho fatto un ulteriore passaggio verso il management di progetti di sviluppo software.
La maestra cerca di capire il percorso professionale… e io cerco di semplificarmi la vita, riportando quanto ho detto entro binari e categorie più “normali.
Anche se le tematiche sono cambiate, di fatto in questa prima parte della mia carriera lavorativa ho agito secondo un preciso schema operativo, quello del formatore e del consulente; potremmo dire quasi un mentore tecnico.
Formatore
In questo caso il formatore è una persona che possiede delle conoscenze e/o delle capacità su un determinato argomento e le spiega a qualcun altro cercando di trasmettere tali competenze (skill transfer). in questo caso il flusso delle informazioni è diretto e monodirezionale: dal formatore a chi apprende (figura 1).
Consulente
Un consulente tecnologico, spesso è una persona che, oltre a conoscere una cosa dal punto di vista teorico, ha maturato anche una notevole esperienza sul campo ed è quindi in grado di aiutare il cliente a implementare la competenza che gli trasferisce (figura 2)
Il consulente quindi ha sufficienti competenze ed esperienze per supportare il cliente non solo nell’apprendimento delle informazioni/conoscenza ma anche nel fornire un consiglio su quale sia il modo migliore per applicarle.
Non è detto che un consulente sia anche un bravo docente. Anzi spesso capita che chi lavora sul campo non sia poi altrettanto bravo a trasferire agli altri il modo migliore per risolvere un determinato problema. Personalmente mi sono sempre posto come obiettivo di riuscire a fare entrambe le cose: se da un lato, per acquisire la conoscenza diretta è sufficiente riuscire a creare le occasioni giuste — cosa che comunque non è per niente facile —, saper spiegare e coinvolgere nell’apprendimento è quasi un’arte.
La capacità di un buon docente nel trasferimento delle competenze richiede due capacità: saper comunicare e sapere cosa comunicare. Il primo aspetto si può apprendere: ci sono tecniche, corsi, ci si può confrontare con chi è più avanti di noi e fa questo mestiere da molto tempo e con successo. Per il cosa comunicare, nella mia carriera ho seguito invece un semplice principio: selezionare sempre quelle cose che io per primo ho trovato interessanti o importanti, quelle cose che prima di tutto a me sono risultate interessanti e utili per risolvere i problemi che ho dovuto affrontare. Non è una regola universale che possa essere utilizzata in ogni occasione, ma spesso funziona.
Consulente: un passo ulteriore
Il modello di interazione consulente-cliente visto poco sopra, in realtà manca di un passaggio importante, quello che permette al consulente di avere la sua esperienza diretta sul campo (figura 3).
Quindi in questo caso spesso si innesca un rapporto di confronto e di scambio di informazioni; è proprio questo il valore di interagire con un consulente: tutte le volte che interagisce con un cliente porta la sua esperienza ma impara qualcosa di nuovo che poi porta da un altro cliente.
Mentore
Vicino al concetto di consulente si trova quella del mentore, tanto che spesso si fa confusione fra le due figure. In realtà c’è una differenza piuttosto netta fra i due profili: un mentore, oltre a possedere delle informazioni (come il docente) ed essere in grado di applicarle in un contesto reale (come il consulente), è una persona che svolge un suo lavoro (indipendentemente che ci si un cliente a cui spiegarlo/mostrarlo); un mentore finisce però per essere fonte di ispirazione per le persone che gli stanno intorno.
Il coach… ci siamo quasi!
Rispetto a quanto visto fino ad ora, un coach ha un approccio molto diverso. Come un docente o un consulente, si interfaccia con una controparte che ha interesse al suo aiuto, persona spesso detta cliente o coachee (vale a dire “chi è allenato” dal coach), anche se a volte il cliente è quella figura che stipula un contratto commerciale con il coach: il cliente ingaggia il coach, che eroga il suo servizio al coachee. Cliente e coachee a volte sono la stessa persona, a volte no.
Non è obbligatorio che un coach abbia conoscenza del dominio operativo del suo coachee: non deve infatti insegnare, dare risposte, fornire soluzioni. Non è quindi un formatore né un consulente. Tantomeno è un mentore, ma anzi dovrebbe mantenere un rapporto distaccato e “asettico” con il suo interlocutore. Un coach, indipendentemente dalla sua area di intervento (business coach, life coach, sport coach…) deve aiutare il coachee a identificare i propri obiettivi senza interferenze o condizionamenti.
Il coach quindi aiuta il coachee a chiarire quali sono i problemi della posizione attuale (“via da”) per far emergere un percorso nella direzione dell’obiettivo finale (“verso a”). Un coach spesso usa vari strumenti, dalle “costellazioni sistemiche”, al solution focus, alle tecniche di analisi delle alternative per stimolare un processo evolutivo. Il coach fa domande per aiutare il coachee a trovare le risposte, ma non ne fornisce lui direttamente.
Per un coach non ci sono risposte sbagliate, ma al massimo può evidenziare quando c’è uno scostamento dagli obiettivi iniziali: il coachee vuole andare via da A e si vuole dirigere verso B. Giunto a metà del percorso egli inizia a manifestare l’interesse di muoversi verso C. Il coach, in questo caso, evidenzia questa situazione, provando a chiedere se è ancora interessante per il coachee andare verso B o se forse la nuova destinazione è più interessante.
E il coach agile?
Un coach agile è una specie di mix fra tutte le figure precedenti. Egli deve avere le conoscenze teoriche per insegnare per esempio i princìpi di Agile, Scrum o Kanban, quindi è un docente. Spesso quando entra in una organizzazione inizia proprio dalla spiegazione dei principi teorici di base.
Egli però dovrebbe essere in grado di seguire il gruppo anche nella applicazione dei principi base e nella implementazione di un processo Scrum. Quindi deve avere esperienza applicata sul campo e sarebbe bene che avesse anche conoscenza del dominio. In tal senso è quindi un consulente.
Il coach agile, almeno per come lo intendiamo io e i miei colleghi, dovrebbe innescare un processo di crescita delle organizzazioni all’interno delle quali lavora, in modo che possa passare da fare il docente/consulente a fare il coach nel senso “classico” del termine. Pian piano, smette di spiegare come si fanno le cose e stimola il gruppo ad applicare le pratiche agili in maniera autonoma.
In questa fase il coach agile probabilmente supporta la transizione dell’organizzazione verso un paradigma Agile guidando retrospettive, cercando il più possibile di limitare il suo intervento ma stimolando la discussione, la crescita dei team. Spesso dovrà tornare indietro di un passo rafforzando alcuni concetti teorici, mostrando la strada quando il gruppo sta per mettere in atto qualcosa di palesemente anti-agile.
Un coach agile, proprio perché spesso chiamato a guidare la cosiddetta transizione agile, deve saper parlare linguaggi differenti a persone diverse nell’organizzazione: i team di sviluppo (non solo software), i manager, i quadri, la proprietà, i clienti finali. Avere queste capacità non è affatto banale. Serve esperienza, conoscenza del dominio, capacità empatiche, dialettica e molto altro ancora.
Da qualche tempo, insieme ad altri colleghi, ho dato vita a una azienda di Agile Coaching, che sviluppa anche progetti per terzi. In questo senso, le mie attività mi ‘configurano’ un po’ anche come mentore, nel senso che non voglio limitarmi a raccontare come si fa, ma provo attivamente a metterlo in pratica, rischiando imprenditorialmente in prima persona.
Prossimamente mi infilerò in un progetto di sviluppo software per rinforzare un po’ le mie conoscenze sulle pratiche XP e inizierò un corso da coach sulle ‘costellazioni sistemiche’: quindi due argomenti completamente differenti entrambi importanti per un Agile Coach. Da un lato le tecnologie, dall’altro le soft skills…
È impegnativo, richiede appunto competenze mutidisciplinari e un continuo aggiornamento.
Ma ad oggi è il mestiere più interessante che abbia potuto provare!
La maestra mi scruta perplessa…
Prendo tempo: “Scusi… guardi un po’ quell’estintore… non le sembra dall’etichetta che sia già scaduto?”
La maestra si volta…
Scappo…