Una riflessione sul talento
Il tema del “talento” è, secondo me piuttosto complesso. Da un lato, tutti sappiamo, o crediamo di sapere cos’è il talento. “Quel giocatore è un vero talento”, “Eh, ma lo senti questo musicista? Ha talento da vendere”, “Senza talento si va poco lontani…”. Quante volte abbiamo sentito frasi di questo tenore?
Ma, d’altro canto, se ci caliamo nella realtà, in maniera più concreta, e con meno frasi fatte, scopriamo presto che definire il talento, lasciamo stare poi il misurarlo, diventa operazione piuttosto difficile.
La cosa appare abbastanza chiara a coloro che, come chi scrive, del “talento”, o meglio di programmi per valutare e addirittura misurare il talento, si devono occupare professionalmente. Le aziende chiedono a noi coach/consulenti un metodo o, a dire il vero, uno strumento per misurare il talento e valorizzarlo in azienda. Partiremo quindi proprio con questa consapevolezza, cercando da un lato di sfatare certe credenze spesso assunte come verità dimostrate scientificamente, e dall’altro di dare però anche degli esempi di come si possa procedere per cercare di favorire il miglioramento delle persone, delle loro competenze, delle loro attitudini e del loro “talento” all’interno di organizzazioni che vogliano valorizzarlo.
Un’indagine che dura da decenni
Cercare di dare una definizione di talento è qualcosa che ha impegnato studiosi e ricercatori già da molti decenni. Ci sono diverse ricerche, diciamo dagli anni Sessanta dello scorso secolo in poi, condotte in ambito psicologico, pedagogico e, in senso lato, comportamentale, che se lette con un occhio appena un po’ estremo, ma neanche tanto, ci dicono sostanzialmente una cosa: il talento puro, il talento innato che fa da sé… non esiste e non è mai esistito. So che può sembrare un’affermazione forte, ma l’idea “romantica” di talento, come quella di “genio e sregolatezza” possono essersi maniifestate in qualche caso, ma di sicuro non ci danno gli strumenti per capire cosa veramente sia il “talento” e, soprattutto, come curarlo, migliorarlo, farlo emergere e incanalarlo all’interno di un’organizzazione (aziendale) che possa impiegarlo per scopi comuni.
Molti conoscono poi quella ricerca condotta negli anni Ottanta del Novecento in Germania: si prese in esame un gruppo di violinisti e se ne studiarono minuzionsamente le caratteristiche genetiche, l’ascendenza familiare, i contesti culturali per cercare di trovare quali fattori influenzassero maggiormente la possibilità di diventare un violinista di alto livello. Di fatto, i ricercatori, non trovarono nulla di tutto questo. L’unica differenza era la quantità e la qualità di esercizio. C’era chi era nato da una famiglia di falegnami ed era diventato un violinista eccellente, e c’era chi, nato da musicisti ed educato in quel contesto, aveva poi dovuto ripiegare su altri tipi di carriera, perché non abbastanza bravo come musicista. Fu uno studio che fece notizia, perché veramente ci mancavan solo che misurassero la dimensione della testa o certe caratteristiche “fisiognomiche” in stile Lombroso… Quindi, forse, più che di talento dovremmo parlare di applicazione?
O di rinforzo delle possibilità che ti sono state date? Viene chiamato in letteratura “effetto Matteo”. Perché succede che, se tu hai dimostrato di aver fatto qualcosa di buono con i 4 o 5 “talenti”, nel senso di monete, che ti hanno dato, allora vali. Se, invece te ne hanno date poche, ne restituirai poche e sei fallito.
Passare ai talent program in azienda
La questione si fa ancora più interessante quando passiamo dalla definizione “accademica” di talento all’implementazione dei cosiddetti programmi di valorizzazione del talento che oggi molte aziende cercano di realizzare.
Da quello che ho potuto vedere in questi anni, a me sembra che questi programmi siano basati in gran parte su presupposti vecchi. Ma non sarò solo “negativo”, anzi. Porterò degli esempi, degli “esperimenti” a cui ho assistito che tentano in qualche modo di affrontare, magari in modo empirico e pragmatico, tali limitazioni.
Partiamo da una considerazione semplice ma stringente: le aziende non hanno budget infiniti o anche solo molto cospicui da investire nello sviluppo dei talenti. E allora cosa fanno? Cercano di identificare nell’organizzazione le persone che hanno talento o hanno potenziale e investono solo su quelle, perché economicamente non possono investire su tutte. Quindi questo già mette in moto una serie di pregiudizi su chi è bravo e chi no, chi merita e chi no.
Sarò più chiaro: non è questione di non voler escludere nessuno, ma è questione di criteri di scelta. Perché certe scelte, su quale criterio le faccio? Se fossimo in un business con misurazioni più oggettive, e anche di questo parleremo più avanti, potrei anche capire: devo costruire armadi, di media le persone ne realizzano, che so, 12 al mese e questo lavoratore me ne fa sempre almeno 15… be’ è più veloce, più concentrato, a parità di qualità. Oppure, di solito per fare una riparazione ci vuole una giornata e questa persona me le fa sempre in una mattinata o in un pomeriggio… be’, ho dei criteri relativamente oggetivi.
Il fatto è che quando si passa nell’ambito della cosiddetta economia della conoscenza, o knowledge work, e si ha a che fare con aziende senza una struttura di lavoro determinata, che è poi lo scenario più comune oggi, questa cosa di valutare “il talento” è imprevedibile. L’investimento che fai non è nessuna garanzia dei risultati. Li ha perché è naturale: se investi in una persona, ti ripaga questo investimento. Però non è detto che tu gli stia facendo fare la roba giusta.
E discorso analogo si può fare per la performance: quanto una persona è in grado di “rendere” sul suo lavoro dipende da un sacco di elementi. Chi è messo nelle condizioni giuste, per esempio è messo nel team che ha gli ingredienti giusti per lavorare, con il dovuto supporto dei capi, è probabile che risulti fra gli high performers. Quindi non è predicibile a livello individuale questa cosa. E quindi è più simile a una coda lunga come distribuzione.
Soft skills per tutti
Altro meccanismo tipico che spesso si vede nelle aziende: si identificano i potenziali talenti e le persone su cui si vuole investire. Magari sono persone che sono state in grado di gestire situazioni difficili o che hanno preso parte a momenti “vittoriosi” per l’azienda. E guarda che, come dicevamo prima, queste non sono situazioni tanto misurabili o predicibili.
Cosa fa l’azienda allora: decide di formarli ulteriormente. Su cosa? Ma sulle soft skills, che sono a loro volta una delle cose meno predicibili. Ti voglio far diventare più empatico, più leader, più decision maker. Va bene. Ma non saprai mai se poi quel tipo di formazione si rifletterà direttamente nelle situazioni reali aziendali.
Però va bene. Ma il limite è che se io prendo il 10% della popolazione e gli faccio questo training, l’efficacia del loro addestramento è condizionata dal fatto che il 90% della popolazione non l’ha fatto. Quindi se ti insegno a dare feedback, però non ho insegnato alle persone a riceverlo, o viceversa. Se ti insegno a essere empatico o a comunicare in maniera efficace, non ho insegnato agli altri ad ascoltare, e viceversa. Ecco, questo è un risvolto su cui occorre riflettere.
In realtà, più che impararle, le soft skills si allenano nel contesto in cui si opera. Tutto si basa sul presupposto di aver capito qual è il risultato derivante dalle soft skills… Cioè, cosa significa una persona che ha più leadership? Cosa succede di diverso dopo che io ti ho fatto fare tre giorni di ritiro spirituale ad abbracciare gli alberi? Non è definibile.
Racconti dal mondo reale
Abbiamo visto che però che ci sono situazioni reali in cui la “gestione del talento”, se proprio vogliamo usare quest’espressione, ha funzionato bene. E il più delle volte si tratta di situazioni “conversazionali” in cui le persone si sono raccontate qualcosa di congruo e pertinente, scambiandosi del valore.
Come quel caso che ho visto raccontarsi tra manager, in cui un tecnico molto specializzato non voleva più andare in trasferta ma doveva essere mandato in Arabia Saudita, perché solo lui eralra in grado di gestire quel progetto. E allora il manager gli ha detto “Guarda, ti devo mandare anche stavolta, lo so… però ti porti dietro Giovanni, che è più giovane però te lo tiri su… e almeno non sei da solo. Hanno raccontato come hanno gestito la relazione con questa persona e gli è piaciuta e l’hanno messa nel quadrante della leadership buona.
Più che stare a parlare di un qualcosa che ha una definizione, (empatia, leadership), si fa riferimento a delle pratiche che hanno funzionato e che in qualche modo poi si possano far rientrare lì.
Se invece lo trasformi in un modello, ti sto prescrivendo una modalità di comportamento. E c’è una cosa che mi piace molto nel momento in cui qualcuno ti dice qual è la cosa giusta o sbagliata ti sta chiedendo di obbedire di fatto, no?
Il talento è l’opinione di qualcuno
E poi, quando parliamo di talento, parliamo sempre di questo mischione di roba. Il fatto che qualcuno abbia talento è l’opinione di qualcuno. Punto. A meno che non abbiamo una definizione oggettiva di talento in una determinata disciplina. E purtroppo facciamo ancora riferimento allo sport che è efficace come metafora nel momento in cui continuiamo a trattare le aziende come delle squadre ma non lo sono.
Quindi il talento è fare canestro o fare tutti i passaggi che permettano a una persona di fare canestro? In un’azienda è ancora più complicato di così perché non c’è solo un modo per vincere una partita. E se ce ne fosse uno, è tutta una serie di interrelazioni tra le parti, persone, eccetera, che sono un po’ meno normate di quelle di una squadra o delle azioni, delle modalità di gestire una partita. Però torniamo al fatto che diamo per scontato che il talento è un’opinione di qualcuno, che può essere legittima e autorevole; quindi Tizio ha un talento e ce lo diciamo perché ci serve che questo talento venga valorizzato, venga fatto un investimento, venga nutrito, una volta che l’abbiamo definito e ci piace, e piace anche a lui, tutto quello che possiamo mettere in atto per alimentarlo non è agire solo su Tizio, ma è agire su dove Tizio opera, che senso Tizio vuole dare a questo suo coinvolgimento e quanto dura nel tempo.
Nelle aziende, quando mettono in piedi dei Talent Program, prendono gruppi di persone di cui qualcuno parla bene, ma di cui la performance a livello oggettivo non è accettabile. Caio che è stato bravo nel facilitare delle retrospective tra persone in conflitto e li ha appacificati. Tizio è stato bravo a presentare dei contenuti in public speaking. Li mettiamo in un programma di sviluppo dei talenti. Però non è che stiamo parlando di performance misurate.
Comunque, volendo fare una serie di esempi che possano essere utili per promuovere delle attività, potremmo anche raccontare qualche storia.
Ad esempio, in una grande azienda del fai da te e dei prodotti per la casa e il giardinaggio, era stato messo su un programma weekender cioè le persone che fanno i commessi dentro i punti vendita, mentre fanno l’università o dopo il diploma: fanno solo il weekend. Però ogni tanto, uno di questi chiede di poter essere assunto a tempo indeterminato oppure l’azienda dice che Sempronio è veramente bravo, e quindi meglio che lo prendiamo prima che se ne vada. Su cosa si basano? Si basano sull’opinione del capo negozio. Quindi se il caponegozio dice che Sempronio è stato bravo, ci fidiamo del responsabile perché lui sta gestendo il negozio.
Poi lui porta la storia di Sempronio e porta Sempronio e racconta a un gruppo di altri capi negozio che cosa l’ha colpito di Sempronio. Gli abbiamo fatto fare il canvas, quali sono gli aspetti su cui forse Sempronio potrebbe migliorare, tipo: si spazientisce quando ha le persone un po’ anziane, mentre con le famiglie è molto disponibile. Ha imparato subito dove è il materiale. È venuto anche quando c’era da sistemare. Ha dimostrato alcune caratteristiche che non sono scritte nero su bianco, ma che hanno colpito il caponegozio. Perché possa essere assunto però bisogna metterlo alla prova. Allora gli altri cosa fanno? Fanno prima a al caponegozio e poi, quando entra, anche a Sempronio, delle domande situazionali. Quindi cosa faresti se? E poi si scambiano disponibilità.
Allora Sempronio ha lavorato nel negozio A per sei mesi e il capo è contento. Lo mandiamo un pochino nella cittadina vicina, dove dove c’è tutto il reparto bagno e arredo casa che lui non ha mai visto.
E queste persone facevano micro video, lo mandavano, si autointervistavano anche in negozio, alcuni molto divertenti. E poi li chiamavano in riunione per chiedergli ti torna o non ti torna. Questo perché? Perché non potevano investire su tutti i weekender. Di ogni punto vendita ne identificavano uno o due al massimo e quelli potenzialmente diventavano i futuri assunti.
Quindi la cifra dell’azienda su una persona era frutto di una conversazione, non era scritta in un manifesto. E non era neanche un foglio o una matrice compilata senza conversazione, senza la partecipazione della persona stessa. E loro hanno messo in piedi questo programma in ogni località ed era molto interessante perché si raccontavano anche alcuni contenuti che da capi negozio generalmente senza questa occasione non comunicavano tra di loro.
E il criterio di successo o di perplessità su una persona dipendeva dalla natura delle persone capo negozio. Se ci fossero due inserimenti tra i capi negozio più rigidi, magari più autoritari, questi probabilmente reindirizzerebbero la scelta dei weekender da assumere con dei criteri diversi.
Se l’obiettivo è avere delle persone che siano congruenti con la cultura aziendale, se la cultura aziendale fa un passo indietro o un passo in una direzione diversa, è meglio che venga permesso questo tipo di esperimenti.
Di formazione umanistica e filosofo, lavora e si diverte con il digitale dal 1999. Nel corso degli anni, ha rivestito ruoli di web designer, motion designer, software developer e project manager. Ha contribuito a diffondere in Italia la cultura dell’Information Architecture e della User Experience. Dopo un’esperienza di General Management e in alcune startup come investitore e advisor, ora è CEO e co-fondatore di Agile Reloaded e di Nobilita. Svolge attività di consulenza e coaching in organizzazioni che hanno bisogno di migliorare qualità, performance e sostenibilità del ritmo lavorativo, con un’attenzione specifica alla valorizzazione delle persone e delle performance.