Talento e successo: due elementi inscindibili?
Il dibattito sul talento e lo sviluppo professionale nelle aziende rivela una serie di sfide e preconcetti che meritano un’analisi approfondita. Spesso, si tende a definire il successo in termini di conformità alla cultura aziendale, il che può ostacolare l’innovazione se la cultura stessa non è disposta a evolversi.
L’importanza del riconoscimento
Un esempio illuminante proviene da una importante azienda del ramo assicurativo in cui ho lavorato, dove i dipendenti, interrogati sui loro successi lavorativi, hanno quasi unanimemente citato i complimenti ricevuti dal loro capo, specialmente se fatti di fronte ad altri o in comitato di direzione. Questo dimostra che il riconoscimento della qualità del lavoro svolto e l’incremento della “cifra reputazionale” possono avere un valore anche superiore a incrementi salariali o premi, sottolineando come la gratificazione emotiva e il riconoscimento sociale siano potenti driver di motivazione.
Programmi di sviluppo del talento
Guardiamo la realtà: le aziende non hanno il tempo e il denaro per consentire a tutti i dipendenti di partecipare a programmi di sviluppo del talento, e quindi mettono in atto delle strategie che magari hanno copiato da altre realtà o che gli sono state “vendute” come risolutive da qualche scaltro consulente…
Ma a me pare che i programmi di sviluppo del talento basati su vecchi presupposti siano oramai superati e superabili grazie a nuove conoscenze. Tanto per iniziare, va detto che tali programmi investono — necessariamente — solo su una ristretta popolazione aziendale di “promesse”. Questa selezione è spesso arbitraria, basata su opinioni soggettive e difficilmente supportata da dati oggettivi che possano indicare qualcosa per il futuro. Forse Il concetto stesso di “talento” andrebbe messo in discussione: di sicuro non esiste come entità oggettiva e misurabile.
Evoluzione del concetto di carriera
Il concetto di carriera in azienda sta cambiando radicalmente. Non si tratta più solo di crescita verticale, ma di mappare tutto ciò che una persona percepisce come un incremento delle proprie capacità o del proprio valore. Questo può includere l’espansione del ruolo, l’acquisizione di nuove competenze o una maggiore rilevanza nella strategia aziendale.
Un punto cruciale è la comprensione che non tutti i dipendenti desiderano una crescita costante o una progressione manageriale. Alcune persone preferiscono semplicemente svolgere bene il proprio lavoro e non cercano necessariamente posizioni di maggiore responsabilità. L’idea che “ogni persona abbia un bisogno cruciale di crescere, altrimenti se ne va” è un bias positivista degli ultimi dieci anni, spesso proiettato dai manager che desiderano crescere. È fondamentale riconoscere e rispettare queste diverse aspirazioni, garantendo comunque un minimo di “step up” regolare per evitare demotivazione.
Un esempio significativo è quello di sviluppatori molto bravi che si sono opposti a una crescita verticale imposta, preferendo continuare a programmare invece di diventare manager. Questo evidenzia come forzare le persone in ruoli che non desiderano, anche se considerati “superiori”, possa portare a stanchezza e demotivazione, riducendo l’energia e l’efficacia sul lavoro.
Core Business Expertise
L’idea di “core business expertise” sottolinea che ogni persona dovrebbe avere l’opportunità di approfondire le proprie conoscenze in un ambito specifico, o di espandere le proprie competenze in aree affini, come quella commerciale, finanziaria, o di prodotto. L’incremento può avvenire in termini di:
- Seniority: aumento dell’esperienza e della competenza nel proprio campo.
- Capacità: acquisizione di nuove abilità o perfezionamento di quelle esistenti.
- Rilevanza strategica: maggiore coinvolgimento nella strategia di business o nella gestione economica.
- Rilevanza tecnologica/specifica: maggiore coinvolgimento nella strategia tecnologica o in un ambito di competenza specifico.
Anche per ruoli apparentemente meno “crescenti” come l’amministrazione, ci si aspetta un minimo di evoluzione, magari nell’adozione di strumenti più efficienti o metodologie innovative. La mappatura di questi percorsi di crescita è complessa e dovrebbe essere gestita dai responsabili delle aree, non da un’unica figura centrale.
Ricollocazione interna
Il concetto di ricollocazione interna è potente. Tuttavia, un cambiamento di ruolo troppo drastico potrebbe essere dettato più dalle esigenze aziendali che dalle aspirazioni individuali. È cruciale che ci sia almeno una minima congruenza tra il percorso di studi, l’esperienza lavorativa e le ambizioni future della persona. I movimenti più efficaci avvengono all’interno di ruoli più o meno codificati, garantendo un incremento costante in aree affini allo sviluppo professionale.
Conversazioni efficaci in HR
Un problema diffuso è l’assenza di conversazioni significative tra azienda e dipendenti riguardo allo sviluppo professionale. Quando i dipartimenti HR gestiscono centinaia o migliaia di persone, le relazioni si perdono, le conversazioni diventano standardizzate e si tende a “incasellare” le persone in percorsi di crescita rigidi. Questo porta all’inefficacia dei programmi di formazione e degli investimenti in soft skill, perché manca un dialogo personalizzato e una comprensione delle reali esigenze individuali.
Basterebbe un approccio più semplice: fare il punto periodicamente, con situazioni in cui qualcuno pone domande pertinenti e offre risposte concrete. Queste conversazioni, viste funzionare in aziende di dimensioni più contenute, permettono alle persone di descrivere il proprio ruolo, le difficoltà e i bisogni, aprendo a nuove possibilità e all’auto-aiuto reciproco.
In queste aziende più piccole, dove l’HR è quasi assente come figura prescrittiva, sono le persone stesse a ridefinire i propri ruoli e a comunicarlo all’HR. Ad esempio, un Product Owner potrebbe chiarire che non garantisce direttamente la qualità del prodotto, ma assicura la presenza delle figure chiave che possono farlo. Questo dà alle persone la possibilità di modellare la propria importanza e rilevanza, sentendosi ascoltate.
Oltre i programmi per il talento
Se queste conversazioni e questa autogestione funzionassero a livello sistemico, non ci sarebbe bisogno di programmi per il talento. Il talento emergerebbe dall’interazione e dal coinvolgimento delle persone, superando il vuoto “normativo” nelle relazioni lavorative che i programmi di talento cercano di colmare.
La misurazione della performance
In quest’ottica, la valutazione delle persone in azienda è un altro tema critico. Spesso si cerca di misurare la performance basandosi su parametri come il lavoro in team o la qualità, ma la definizione di “qualità” (del codice, del design, ecc.) è spesso vaga e non oggettiva. Bisognerebbe chiedere ai dipendenti per cosa desiderano essere premiati o riconosciuti, e poi cercare di collegare questi parametri agli obiettivi strategici dell’azienda.
Un esempio pratico è l’esercizio proposto a un’azienda con circa trenta persone: valutare la capacità di agire criticamente su obiettivi strategici come, ad esempio, l’aumento del fatturato. L’obiettivo è dimostrare che non sempre è possibile misurare oggettivamente il contributo individuale e che, in molti casi, ci si deve fidare dell’opinione di qualcuno che ha lavorato con quella persona
Premi e riconoscimenti: come gestirli?
L’introduzione di premi e riconoscimenti può generare frustrazione se non è chiaro e trasparente il motivo per cui un collega riceve un premio e altri no. È fondamentale che il contributo sia evidente e che gli altri comprendano e accettino la premialità altrui. Tuttavia, è altrettanto cruciale compensare il lavoro degli altri con un senso di incremento e crescita che non sia necessariamente un premio in denaro.
Questo può tradursi in:
- aumenti di livello annuali;
- incrementi dei benefit (p.e. buoni pasto);
- opportunità di formazione;
- esperienze come viaggi all’estero per motivi professionali.
L’obiettivo è che ogni persona si senta “considerata” e utile, un aspetto spesso trascurato nelle grandi organizzazioni.
Scalabilità e modelli organizzativi
Queste conversazioni dirette e personalizzate funzionano “spontaneamente” nelle aziende piccole, ma diventa difficile replicarle quando l’HR gestisce centinaia o migliaia di persone. L’economia di scala dei grandi dipartimenti HR porta alla perdita di coerenza e alla burocratizzazione delle richieste (p.e.: corsi di formazione).
Anche i modelli organizzativi moderni come il Safe, Value Stream o il modello Spotify con Tribe e Squad presentano sfide simili nella misurazione della performance. Premi basati sul fatturato delle squad, per esempio, possono creare iniquità tra team che generano direttamente ricavi e quelli che non lo fanno (p.e.: customer care). La motivazione estrinseca, sebbene applicabile in contesti molto specifici (p.e.: personale di vendita porta a porta), è difficile da generalizzare e ha una durata limitata in contesti più complessi.
L’Importanza del feedback
Un punto cruciale è la gestione del feedback. L’informazione sull’efficacia di un individuo dovrebbe essere raccolta dalla persona stessa e non dal capo. Se il capo riceve feedback negativo su un dipendente senza che quest’ultimo ne sia a conoscenza o possa lavorarci direttamente con la fonte, si crea un clima di sfiducia.
Il feedback utile è quello che il dipendente raccoglie direttamente e utilizza per il proprio sviluppo. Il ruolo del capo è facilitare questo processo, non raccogliere informazioni segrete. I sistemi HR che tracciano i feedback altrui creano un sistema di controllo implicito che mina la libertà e l’autonomia delle persone, come descritto anche in ricerche risalenti a decenni fa.
L’identità lavorativa
Un altro aspetto fondamentale è l’identità lavorativa, una forma di identità sociale plasmata dal gruppo di cui si fa parte. Essere un “designer” in generale è diverso dall’essere un “designer” in una specifica azienda. Le regole e la cultura dell’ambiente di lavoro influenzano profondamente il modo in cui una persona agisce e percepisce il proprio ruolo. Toccare titoli e ruoli significa toccare elementi profondamente importanti per l’identità individuale.
La capacità di scegliere cosa fare nelle proprie giornate lavorative è un elemento cruciale per il benessere. Quando questa sensazione di autodeterminazione viene meno, subentra un senso di malessere, indipendentemente dal ruolo, dall’azienda o dalla retribuzione. È possibile ripristinare questa capacità consentendo alle persone di definire il proprio ruolo e di esprimere ciò che vorrebbero fare o le difficoltà che incontrano, stimolando la collaborazione reciproca.
Formazione diffusa vs. formazione selettiva
L’investimento in formazione e leadership, se concentrato solo su pochi, crea disomogeneità all’interno dell’organizzazione. La tesi, ancora da dimostrare accademicamente, è che investire la stessa quantità di risorse in una formazione diffusa a tutti, piuttosto che solo su una piccola percentuale di “talenti”, possa portare a un beneficio complessivo maggiore.
Questo significa spostarsi da un approccio in cui si insegnano modelli esterni (p.e.: gestione di una squadra di rugby) a uno in cui le persone definiscono internamente concetti come “leadership” o “empatia”, condividendo episodi buoni e cattivi. Questo approccio non solo è più economico, ma crea anche un sistema di riferimento interno e più autentico.
In contesti di grandi dimensioni, è possibile identificare gruppi di lavoro con “micro-culture” o contesti operativi simili (es. diverse aree assicurative in una compagnia). Sottoponendo questi gruppi ad attività che permettano loro di comprendersi meglio con i propri capi e di gestire la propria carriera, l’HR può assumere un ruolo di facilitatore invece che di prescrittore, identificando temi comuni e semplificando processi complessi.
Conclusioni
Nonostante i dibattiti e gli interventi, la realtà in molte aziende dimostra che le aspettative di una gestione del talento innovativa spesso non si concretizzano. Obiettivi predefiniti e standardizzati, come l’aumento della “velocity” dei team o la “qualità del prodotto”, arrivano dall’alto senza una reale discussione, portando a una sorta di rassegnazione tra i dipendenti. Ciò suggerisce che, nonostante anni di discussioni, siamo ancora “punto a capo” su molti fronti della gestione delle risorse umane.