L’evoluzione storica delle organizzazioni ha influenzato il management dei sistemi; dal secolo scorso ad oggi abbiamo assistito a una crescita costante della complessità dei sistemi, tanto che le metodologie di gestione valide alla metà del Novecento, oggi sono del tutto inapplicabili.
Introduzione
Negli ultimi mesi abbiamo affrontato il tema del project management da vari punti di vista, dagli aspetti relativi allo scope di progetto, alle attività da svolgere, dall’elenco di alcune tecnicalità ai cosiddetti soft skill connessi al lavoro in gruppo su un progetto condiviso (vedi la serie scritta con Erika Cardeti che stiamo pubblicando in questi mesi).
Proseguendo questo percorso, era naturale affrontare il tema delle metodologie agili all’interno della colonna dedicata al project management. Il tema però, non è particolarmente innovativo, visto che molto materiale si può reperire in rete sulle metodologie agili come Scrum o Kanban, e che anche su queste pagine è stata presentata qualche tempo fa una serie “riassuntiva” in tre parti che ne illustra brevemente, ma chiaramente, le caratteristiche [1].
Con un approccio “laterale”, vorremmo, in questo e nei successivi articoli, provare ad analizzare alcune delle ragioni che hanno dato vita all’evoluzione del management che è passato così dalle metodologie tradizionali a quelle più innovative del mondo Agile; in particolare, lo scopo in questa sede non è tanto di affrontare il tema dal punto di vista strettamente tecnico, ma di andare invece a vedere come questa evoluzione/rivoluzione abbia radici lontane, rappresentando di fatto la risposta a un problema e a un percorso iniziato nel secolo scorso e che ha il momento topico nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale.
Scopo e portata della serie
In questo primo articolo vorrei provare a riorganizzare idee e concetti raccolti in questo anno, passato a valutare esperienze e a studiare temi sul management. Non si ha qui certo la pretesa di arrivare a formulare chissà quale pensiero originale, ne’ di fornire l’interpretazione universale delle “leggi” del project management, sempre che questo sia possibile. Esistono peraltro a tale scopo interi scaffali di libri dedicati a materie quali Organica, Gestione Aziendale, tecniche di Project Management e così via.
Intendo invece provare a dare al lettore una interpretazione del perche’ sia così importante ciò che è scritto nell’Agile Manifesto e ciò che viene messo in pratica nelle metodologie Agili; vorrei infatti creare le premesse e la curiosità nel lettore per arrivare a dare un senso e una interpretazione più completa delle ragioni e della sensatezza della adozione di una metodologia Agile.
Appunti di un osservatore: i prodromi dell’evoluzione agile
L’evoluzione del management nello scorso secolo ha subito diversi impulsi, grazie al lavoro di noti studiosi formatisi nell’Ottocento, come Taylor (1856-1915) e Fayol (1841-1925), o pienamente inseriti nel “secolo breve”, come Drucker (1909-2005) e Deming (1900-1993), quest’ultimo noto sopratutto per la formulazione delle 14 regole sulla qualità totale che hanno portato al Lean Management e al Toyotismo.
Si è trattato di un processo di continua ricerca, con prove ed errori, deduzione e induzione, test su cosa potesse funzionare meglio, e scoperte di cosa invece fosse del tutto inappropriato. Lo scopo dei vari studisi, in un modo o nell’altro fu fin dall’inizio quello di provare a capire se fosse possibile formulare un modello di gestione e previsione dei sistemi organizzativi dell’epoca: lo scopo era da un lato comprendere i sistemi con i quali si doveva interagire quotidianamente nei vari contesti produttivi, dall’altro di provare a comprenderne le possibili evoluzioni per poter quindi prendere decisioni in tempi rapidi. Si trattava in definitiva di trovare un sistema che si potesse applicare all’industria produttiva di diversi settori, alla azienda fornitrice di servizi, ma anche, in senso più ampio, a corpose fette dell’organizzazione sociale.
La ricerca del “modello perfetto”
Purtroppo fin da subito fu piuttosto chiaro che, oltre allo sforzo richiesto per formulare una metodologia di management, compito tutt’altro che semplice, la difficoltà maggiore era trovare “il modello” valido nelle molteplici situazioni e casistiche: pur disponendo, oggi come allora, di molte metodologie, nessuna di queste può essere usata pedissequamente in ambiti diversi e in condizioni differenti. Inoltre, ad aggravare lo scenario, si constata che la maggior parte degli strumenti offrivano, ed offrono tuttora, un approccio tattico (soluzione tampone per l’immediato), mentre sono molti meno quelli che consentono un approccio strategico (pianificazione di un piano di intervento a lungo termine).
Senza anticipare alcuni concetti fondamentali che vedremo più avanti, un punto fondamentale nel valutare la bontà dei vari strumenti è legato alla complessità del sistema stesso; se nel passato fare management era più semplice (o più lineare) di oggi, una delle cause risiede nella natura dei sistemi oggetto del management stesso; nel corso di decenni siamo infatti passati da sistemi che erano tutto sommato semplici o al massimo complicati, a sistemi in cui la complessità intrinseca è aumentata un bel po’: si parla di sistemi “complessi” dove il livello di complessità è maggiore che nei sistemi “complicati”. Su queste definizioni (“semplice”, “complicato”, “complesso”), avremo modo di tornare più avanti nel corso della serie, poiche’ tali parole hanno un preciso significato nell’ambito di alcuni modelli interpretativi e organizzativi.
Breve storia del management
Gestire grandi operazioni e attività di notevole portata non è invenzione moderna: basterebbe pensare, ad esempio, all’organizzazione dell’esercito dell’antica Roma, capace di conquistare gran parte dell’Europa e del mondo mediterraneo non tanto in virtù delle pur valide capacità di combattimento, ma grazie soprattutto alla perfetta organizzazione logistica, alla capacità di sfruttare al meglio le attività dei soldati anche nella costruzione di opere di ingegneria “civile”, alla perfetta ripartizione di compiti e mansioni.
La scuola classica
In epoca moderna, il lavoro di “pionieri” della “scuola classica” come Fayol o Taylor, non ha portato alla scoperta del “modello” universale di decision making, ha ha però fornito importanti spunti a chi è venuto dopo di loro e ha codificato gli elementi che hanno favorito l’evoluzione del management moderno. I vari percorsi di studio furono più o meno diversi, ma tutti in un modo o nell’altro giunsero alla formulazione di quelle che possono essere considerare le attività basilari e necessarie per pianificare e gestire un processo o un sistema (“management”); queste 5 attività sono oggi note come le cinque funzioni manageriali di Henry Fayol:
- Planning
- Organizing
- Staffing
- Directing (o leading)
- Controlling
Il modo con il quale le industrie e le aziende hanno messo in pratica queste discipline ha caratterizzato fortemente il mangament del secolo scorso. Impilando, serializzando, scomponendo i vari compiti si possono ritrovare alcune pratiche note.
Organizzazioni e processo di produzione: dal modello verticale…
Nel secolo scorso, la maggior pare delle aziende e delle organizzazioni si basavano su una organizzazione verticale, in cui lo scopo era quello accentrare il più possibile ogni aspetto del processo di controllo e produzione: un esempio piuttosto famoso è a tal proposito quello di Ford, che si impegnò per portarsi “in casa” l’intero processo produttivo. In tal senso, le industrie di Ford arrivavano ad acquisire cave di minerali per l’estrazione dei metalli, a gestire fabbriche per la lavorazione di tutti i componenti, fino, ovviamente, a concentrarsi sugli stabilimenti per la fabbricazione delle automobili. Nell’ottica fordista della prima metà del Novecento, si riteneva che questo approccio permettesse un controllo completo e quindi una completa libertà di scelta, di autonomia sul mercato, di controllo prodotto e della sua possibile commercializzazione; in definitiva si pensava di poter avere in questo modo una maggior competitività.
Queste convinzioni si basavano però su una serie di ipotesi fallaci, prima fra tutte la mancanza di una reale competizione: le organizzazioni verticali, se da un lato potevano assicurare potere decisionale tale da influenzare il mercato, o lo facevano credere, dall’altro nascondevano fortissimi elementi di spreco e scarsissima flessibilità.
…a quello orizzontale
La storia ci ha poi raccontato come la crescita dei mercati nel secondo dopoguerra e la costante ricerca di competitività da parte di attori terzi, abbia messo in luce ciò che oggi appare evidente: è fondamentale focalizzare gli sforzi solo sugli aspetti centrali del lavoro (il cosiddetto core business), affidandosi a fornitori esterni per la produzione di beni e l’erogazione di servizi secondari; solo uno schema ricorsivo e frattale farà in modo che ogni attore coinvolto farà del suo meglio per essere competitivo in un pezzetto piccolo del grande disegno. Questo nel corso degli anni ha dato vita a un processo di specializzazione per ottimizzare il proprio piccolo core business: investire costantemente su macchinari e nuovi processi di estrazione e lavorazione, ricercare nuove opportunità di mercato, spostare la produzione dove è più conveniente, cercare nuovi mercati e, sopratutto non essere il fornitore di un unico cliente; in breve, no al monopolio, sì al mercato.
Storicamente il passaggio da un modello all’altro si è avuto dopo la Seconda Guerra Mondiale, in un periodo di totale ricostruzione e di ripartenza. L’avvento della globalizzazione nell’ultimo ventennio del Novecento ha dato ancor più impulso a questo fenomeno, visto che in modo esponenziale si sono evidenziate sempre più rapidamente le limitazioni del modello verticale.
L’approccio analitico
Col senno di poi si può dire che il limite fondamentale alla base di molte delle pratiche del secolo scorso risiede nel non essersi resi conto che il mondo stava cambiando e che la complessità era in costante aumento: continuare a pensare di usare un approccio analitico è stato sempre meno applicabile. I sistemi infatti si sono resi troppo complessi per essere assimilabili a una macchina che può essere smontata e rimontata in maniera concettualmente semplice, seppur con i necessari sforzi.
Il modello analitico deriva dai fondamenti della geometria analitica per la quale in un sistema composito la somma dei componenti, e degli assiomi che li regolano, ci permette di comprendere come funzionerà il sistema nel suo complesso, che quindi può essere spiegato con basi matematiche. In parole povere, in un sistema di questo tipo la somma delle parti è uguale al tutto. Un esempio piuttosto evidente comprensibile facilmente è quello di una costruzione Lego: se conosco le leggi che regolano i mattoncini e i pezzi di vario tipo, posso immaginare come funzionerà la costruzione che andrò a realizzare.
È ingenuo (quando non disonesto intellettualmente) negare il valore teorico e i risultati concreti legati al modello analitico: grazie a questo approccio, l’umanità ha raggiunto conquiste scientifiche, tecnologiche e industriali di tutto rispetto. Ma occorre prendere atto anche dei limiti di tale modello. L’approccio analitico funziona bene quando si ha che fare con sistemi semplici, o al massimo complicati, ma non funziona per i sistemi complessi. E negli anni recenti, la complessità dei sistemi è aumentata a dismisura e con essa anche la velocità con cui occorre reagire agli stimoli, ai cambiamenti e con cui è necessario adattarsi in maniera flessibile ai mutamenti.
Nei prossimi articoli presenteremo una dettagliata distinzione delle tipologie di sistemi (semplice, complicato, complesso, caotico), spiegandone tutti gli aspetti. Per ora, in maniera molto semplicistica, basti sapere che un sistema complesso si distingue dal complicato per la maggiore rete di relazioni che si instaura fra i componenti del sistema stesso: si dice che è un “network non lineare”. Per semplificare ulteriormente, e alleggerire la discussione con una battuta facile da ricordare la prossima volta che ne parlerete in treno a uno stupefatto interlocutore, possiamo dire che il “sistema complesso è più complicato del “sistema complicato”…
Dal modello orizzontale all’outsourcing
Il quadro geopolitico generato dalla Seconda Guerra Mondiale è indicato come una delle cause maggiori che hanno dato impulso alla creazione di un mercato globale, inizialmente limitato alla sola area “occidentale” e “atlantica”, e successivamente estesosi a tutto il pianeta, dopo la fine della Guerra Fredda e il crollo del Muro di Berlino che ha definitivamente inserito nel panorama economico e industriale potenze globali come la Cina, fino ad allora rimaste, almeno nominalmente, fuori dal mercato mondiale, e nuovi Paesi emergenti, al tempo stesso produttori e mercati. Tutti questi sconvolgimenti hanno portato a dinamiche di concorrenza su scala mondiale, e all’affermazione di un modello orizzontale sempre più spinto.
Semplificando al massimo, possiamo dire che subito dopo la guerra, gli USA usciti vincitori dal conflitto si ritrovarono fra i pochi Stati coinvolti nelle operazioni militari a non aver subito devastazioni sul proprio territorio: il loro sistema produttivo non solo era intatto, ma anche al massimo del proprio potere produttivo visto il potenziamento avvenuto per motivi bellici. La possibilità quindi di esportare in tutto il mondo i propri prodotti fu una conseguenza logica di un sistema che aveva bisogno di ampliare il proprio areale di competenza. La tendenza è durata per alcuni decenni fino all’entrata in gioco di altri grandi attori del mercato mondiale, con le conseguenze che vediamo in questi ultimi anni.
Con queste premesse, siamo passati da un modello in cui si cercava di avere un totale controllo del processo produttivo (modello verticale dalla miniera di ferro all’autosalone) a uno dove, per poter svolgere il proprio core business, l’azienda deve sempre più avvalersi di beni e servizi forniti da partner (modello orizzontale): questo ha consentito una riduzione degli sprechi, quindi dei costi, e quindi una maggior competitività sul mercato. La generalizzazione di quello che era un rapporto fra “pari” tipico del modello orizzontale, si è però evoluta nel sistema dell’outsourcing, quello che alcuni indicano come l’evoluzione negativa di modello orizzontale.
Chi troppo vuole…
Un aspetto molto interessante, che spesso non viene debitamente messo in luce nei classici corsi di studio di Business Administration (BA), è che estremizzare in modo spasmodico due aspetti positivi (miglioramento della performance, riduzione dei costi), ha però portato via via verso sistemi sempre più complicati introducendo per le organizzazioni nuovi e ulteriori costi derivanti da un maggior impegno organizzativo e di gestione.
Si è arrivati a una situazione quasi paradossale per cui buona parte dell’impegno profuso da un qualsiasi sistema produttivo non sta tanto nel produrre il suo bene fondamentale o nell’erogare il servizio principale: succede infatti sempre più spesso che la produzione sia esternalizzata, mantenendo all’interno magari solo l’assemblaggio o il confezionamento finale, o che i servizi siano subappaltati. E in questo scenario, l’impegno principale dell’organizzazione sta nel controllare ogni aspetto del processo in modo da ridurre al massimo ogni spreco e ottimizzare il guadagno. Il management è quindi diventato il maggior costo, nonche’ fonte di stress, personale e di sistema, e di criticità; fatto questo piuttosto ironico se si pensa da dove si era partiti: la riduzione degli sprechi, l’ottimizzazione dei costi, il miglioramento delle prestazioni.
Approccio olistico
Da quanto fin qui visto, emerge chiara una considerazione: con il tempo i sistemi si sono evoluti, sono diventati più complessi e tale complessità non permette di affrontare il problema solo nelle sue singole parti. È necessaria quindi una strategia differente che affronti il sistema nella sua completezza.
Sta prendendo campo in questo caso il concetto di “sistema olistico” (dal greco “holos” = “tutto”, “totalità”). Un sistema olistico è un qualsiasi insieme o gruppo di parti interdipendenti o temporalmente collegate: queste parti sono a loro volta sistemi e sono composte da altre parti, in uno schema frattale. La teoria dei sistemi ci dice che il modo per comprendere a fondo il comportamento dei sistemi olistici è quello di valutarli nella loro interezza, come per il caso degli insetti sociali, la cui colonia si comporta come un super-organismo unico. La teoria del systems thinking pone l’attenzione sul concetto di interconnessione fra elementi.
Come ci dice Wikipedia [2]: “Olone è un termine coniato da Arthur Koestler nel 1978: l’olone è una parte di un sistema complesso, che ha una sua individualità, ma è anche parte integrata di un sistema di ordine superiore. L’olone è composto da altri sotto-sistemi, che solitamente sono degli oloni anch’essi. Ad esempio, ogni essere umano è un individuo, singolo, che fa parte di una comunità sociale. A sua volta, l’essere umano è formato da un insieme di cellule, ognuna individualmente differente dalle altre, che sono oloni a loro volta.”
È interessante notare un aspetto: olone è un termine che ben si adatta a diversi ambiti (dall’etologia ai system dynamics); ebbene, un aspetto fondamentale è che, in un sistema olistico, il comportamento del singolo olone preso singolarmente è sempre differente dal suo comportamento in un contesto aggregato.
Conclusione
Per concludere questo articolo dal taglio atipico, può essere utile fornire una sintesi dei molti concetti affrontati.
Il primo aspetto è che, per una complessa serie di fattori storici e sociali, i sistemi compositi si sono evoluti e radicalmente cambiati nel corso dei decenni. Siamo passati da organizzazioni semplici, o al massimo complicate, verso sistemi complessi (quando non addirittura caotici).
L’approccio classico analitico (quello che prevede prima una procedura di decomposizione e poi una di intervento attivo) non è più in grado di modellare sistemi complessi.
Queste considerazioni, riportate in ambito di project management ci danno quindi la conferma del perche’ le metodologie che si basino strettamente sulla decomposizione strutturale o funzionale non siano più in grado di risolvere problemi tipici della realtà attuale e contemporanea.
Le metodologie agili quindi possono essere considerate più idonee ad affrontare la gestione di un sistema complesso proprio perche’ non negano la complessità ma anzi la affrontano in modo chiaro e diretto: molte delle pratiche dell’Agile sono proprio improntate ad affrontare il tema “gestione del sistema” nella sua interezza.
Il prossimo mese cercheremo di approfondire le motivazioni per cui le metodologie agili possono rappresentare la risposta utile per fare meglio il lavoro del project manager al giorno d’oggi. Introdurremo concetti come il modello interpretativo Cynefin e tenteremo un collegamento fra i concetti base dell’Agile Management e la teoria dei sistemi complessi.
Riferimenti
[1] Fabio Armani, “Introduzione alle metodologie agili”, MokaByte, 2011
https://www.mokabyte.it/cms/article.run?articleId=92U-SSB-4CC-OOX_7f000001_10411362_2b9269b4
https://www.mokabyte.it/cms/article.run?articleId=CXF-YBG-TPT-ID4_7f000001_10411362_d8d76f57
https://www.mokabyte.it/cms/article.run?articleId=YMK-U4U-UVF-8PG_7f000001_15042247_6b5b63b5
[2] La voce “Olone” su Wikipedia
http://it.wikipedia.org/wiki/Olone