Stili di leadership in epoca moderna
Il tema del modello di leadership migliore per governare efficacemente un’organizzazione si è sviluppato con molta decisione negli ultimi quaranta anni. In realtà l’intero secolo passato ha visto un’evoluzione significativa del ruolo del leader e del suo modo di porsi nei confronti delle persone che a lui sono state affidate. In questo articolo cercheremo di dare una visione prospettica del tema, focalizzandoci in particolare sui modelli che meglio si adattano a realtà produttive che abbiano adottato principi e pratiche agili.
Thinker vs. doer
Allargando ancora di più lo sguardo possiamo dire che in epoca moderna abbiamo assistito e stiamo assistendo a tre fasi significative per quanto attiene i modelli di leadership.
La prima fase è quella che nasce molti secoli addietro e si conclude grosso modo nei primi anni del Novecento. Essa è caratterizzata dall’artigianato, in cui il lavoratore copre l’intero ciclo di produzione o buona parte di esso: l’artigiano pensa e fa.
La seconda fase copre l’intero Novecento e in qualche caso non si è ancora definitivamente conclusa. Questa fase è quella della produzione di beni di massa in grandi quantità e la singola persona coinvolta nella produzione tipicamente fa e non pensa o, perlomeno, non è tenuta a pensare a ciò che sta producendo. C’è infatti qualcun altro che ha pensato per lui alle azioni che devono essere compiute e al modo in cui devono essere eseguite. In questa fase esiste un gruppo ristretto di persone che pensa a come tutte le altre debbano operare: queste ultime si limitano a fare ciò che gli è stato detto, senza che a loro sia richiesto di attivarsi personalmente per cambiare o migliorare il flusso di produzione. L’operaio fa.
La terza fase ha cominciato a svilupparsi negli anni Settanta del secolo scorso e sta vivendo una fase di forte accelerazione proprio negli ultimi anni. Questa terza fase, vede una sorta di “riunificazione” delle attività del pensare e del fare nella singola persona.
Cerchiamo quindi di capire meglio come si connotano la seconda e la terza fase, comprendendo le ragioni che le hanno innescate.
Micromanagement e “manager eroe”
Negli anni Venti del secolo passato, a partire dagli Stati Uniti si afferma definitivamente la produzione di massa. Un caso emblematico è quello della Ford e in particolare della produzione del famoso Modello T [1] che fu realizzato in 15 milioni di esemplari, nell’arco di circa 19 anni.
L’organizzazione del lavoro vede l’applicazione delle teorie formulate da Taylor [2] che prendono il nome di “organizzazione scientifica del lavoro”. L’operaio deve svolgere i compiti a lui affidati nel modo più efficiente possibile. Il management decide e organizza tali compiti e l’operaio si limita ad eseguirli.
Un esempio del clima in cui si lavorava in Ford è ben rappresentato da questo esempio: venivano scelti alcuni operai e questi svolgevano una certa operazione sulla linea produttiva; un controllore rilevava i tempi di ciascuno; l’operaio che eseguiva il suo compito nel modo più rapido veniva preso come riferimento e gli altri dovevano fare obbligatoriamente come lui.
Il management dei “tempi moderni”
Charlie Chaplin in “Tempi moderni” ci ha regalato una rappresentazione macchiettistica di quel modo di operare, purtroppo non lontana dalla realtà.
In un tale contesto, il management è costituito da un gruppo relativamente ristretto di persone che decidono ogni cosa. I loro comandi discendono dall’alto verso il basso nella struttura aziendale: i livelli intermedi hanno il compito di attuarli, senza poter esercitare alcuna scelta autonoma; una serie di controllori verifica che tutto avvenga in ossequio alle scelte dei dirigenti.
Questo tipo di management prende il nome di micromanagement, proprio per l’esiguità numerica delle persone che prendono le decisioni.
Nasce in questo contesto la figura del “manager eroe”: colui che sa tutto, che conosce tutto ciò che avviene, che è competente su tutti gli aspetti produttivi ed è responsabile di tutte le scelte a qualsiasi livello e in qualsiasi ambito.
Micromanagement e manager eroe tratteggiano uno scenario che è ben sintetizzato dall’espressione “Command & Control”.
Da “complicato” a “complesso”
Il contesto in cui operava l’approccio industriale di Ford era molto particolare. Il suo prodotto aveva un potenziale di vendita molto elevato: gli americani necessitavano dell’auto e potevano permettersela, se il prezzo non era troppo elevato; inoltre non avevano una grande pretesa in termini di qualità e di variabilità, a causa della mancanza di elementi di comparazione; la concorrenza era relativamente ininfluente; le materie prime sostanzialmente illimitate e disponibili a basso prezzo; la manodopera era presente in gran numero e ad un costo bassissimo: si pensi a questo proposito alle decine di migliaia di italiani che in quegli anni attraversavano l’Atlantico alla ricerca di un futuro migliore; Ford sapeva quindi che poteva produrre in quantità il suo prodotto, perché comunque avrebbe venduto le auto senza problemi.
Le cose cambiano…
A proposito della variabilità, Ford era solito dire: “Scegliete il colore che volete, basta che sia nero!”. Ma il quadro generale in cui per decenni si era sviluppato questo modello di organizzazione era destinato a cambiare.
Con riferimento al modello Cynefin di D. Snowden [3], Ford si muoveva nel campo del “complicato”, cioè in un mondo deterministico, in cui capire a quale effetto portava una certa causa richiedeva certamente analisi… ma solo analisi!
A distanza di quasi un secolo il contesto è completamente diverso. Una qualsiasi iniziativa imprenditoriale si muove nel campo del “complesso”. Gli elementi di cui tenere conto sono più numerosi; l’evoluzione delle variabili in gioco è molto più imprevedibile; i rischi sono più elevati; i mutamenti di scenario sono più rapidi e profondi; le competenze delle persone coinvolte sono marcatamente più differenziate e più approfondite; i progetti sono necessariamente multidisciplinari.
Valore e persone
Possiamo evidenziare due concetti che segnano la profonda diversità della situazione attuale rispetto al passato: valore e persone.
Il concetto di valore
Il primo concetto da considerare è quello di “valore”. Affinché un’iniziativa imprenditoriale abbia successo, è necessario che apporti al cliente o al fruitore del servizio un valore distinguibile e certo. I valore da trasferire all’utente deve quindi essere identificato e capito. Quindi bisogna intraprendere le azioni utili a creare questo valore. Infine il valore deve raggiungere l’utente e deve essere sostenuto nel tempo. Tutte queste azioni richiedono la presenza di numerose e variegate competenze e conoscenze.
Il valore deve peraltro raggiungere rapidamente il fruitore con lo scopo di ottenere al più presto un feedback che aiuti a comprendere se stiamo operando nella giusta direzione: non si può più pensare di completare l’intero progetto per ottenere un riscontro, poiché le variabili in gioco sono così numerose e cambiano talmente rapidamente che attendere la conclusione del progetto potrebbe far cogliere troppo tardi questi cambiamenti, aumentando drasticamente le probabilità di insuccesso. Diventa dirimente per il successo dell’iniziativa veicolare il valore rapidamente verso il cliente identificando il flusso corretto e virtuoso.
Il sistema delle persone
Per fare ciò serve un “ecosistema” di persone capaci innanzitutto di cogliere i segnali del cambiamento e inoltre capaci di contribuire affinché l’organizzazione si adatti al cambiamento stesso. E questo è il secondo concetto: le “persone”.
È necessario circondarsi di persone pensanti, creando un ambiente aperto all’ascolto in cui i partecipanti possano sentirsi liberi di esprimere le proprie potenzialità, crescere professionalmente, sperimentare la validità delle proprie intuizioni e anche di sbagliare, perché sperimentare vuol dire mettere in conto il fallimento.
Superare i vecchi concetti di leadership
Individuazione e perseguimento del valore e valorizzazione delle professionalità delle persone sono due elementi che scardinano definitivamente i concetti di micromanagement e di manager eroe.
Il micromanagement è superato dalle equipe multidisciplinari in grado di prendere le migliori decisioni ai vari livelli di operatività.
Il manager eroe è superato dai leader in grado di creare le condizioni affinché i singoli collaboratori siano nelle condizioni di dare il massimo contributo.
Il leader
Con queste premesse, è lecito porsi alcune domande a riguardo della nuova concezione di leadership:
- quali sono le caratteristiche peculiari del leader?
- abbiamo dei modelli che ci guidano nel percorso di crescita del leader?
Rispondiamo a queste domande analizzando in modo sintetico quattro modelli di leadership che la letteratura ci propone. Prima però è necessario sottolineare che, in generale, non si tratta di piani di lavoro o di programmi di crescita, ma solo di riferimenti utili a confrontarsi con sé stessi e con gli altri, una guida che ci aiuta a impostare il nostro modo di proporci verso i collaboratori e ad avere maggiore consapevolezza del nostro ruolo e delle nostre azioni.
Ritorna l’atavica domanda: “Leader si nasce o si diventa?”. E forse la risposta ce la fornisce Manzoni in riferimento a don Abbondio: “Il coraggio, uno non se lo può dare” [4].
Un altro spunto di riflessione, particolarmente significativo in un contesto Agile, riguarda la diffusione della leadership: se definiamo leader chiunque condizioni il lavoro di altri… allora siamo tutti leader.
Ma passiamo ora in rassegna i quattro modelli di leadership a cui si faceva riferimento.
Servant Leadership (Robert Greenleaf, 1970)
Robert Greenleaf propone questo modello di leadership [9] unendo due termini opposti e creando una nuova e suggestiva espressione.
Afferma che “il leader è innanzitutto un servo”. Il termine servo è da intendere come l’atteggiamento di chi si mette a disposizione dei suoi collaboratori e delle persone a lui affidate, affinché questi possano dare il meglio di sé; è l’atteggiamento di chi ha compreso che in un contesto complesso il leader non può essere il centro di tutta l’organizzazione, per le ragioni che abbiamo espresso precedentemente.
Il leader è colui che guida altre persone, autonome e specializzate, verso l’obiettivo. Il suo apporto si “limita” quindi a favorire le condizioni affinché gli altri eroghino il massimo del valore.
Servant Leadership in un contesto Agile
In un contesto Agile questa immagine è spesso associata allo Scrum Master che è proprio colui che esercita la Servant Leadership a contatto con i team. Egli quindi si adopera per facilitare il processo Scrum, favorire l’autorganizzazione del team, insegnare le pratiche Agili, aiutare a rimuovere gli impedimenti fino a quando il team non diventa capace di farlo da solo.
In questo senso “si mette al servizio” dei collaboratori. L’atteggiamento del Servant Leader è orientato a incoraggiare la collaborazione, la fiducia, l’ascolto e implica l’uso etico del potere.
Il termine “Servant” ha costituito il successo e anche l’insuccesso di questo stile di leadership, poiché spesso esso viene equivocato e banalizzato.
Leadership situazionale (Ken Blanchard e Paul Hersey, 1984)
Blanchard propone uno stile di leadership [8] in cui l’atteggiamento del leader cambia in base alle circostanze, e per questo detto situazionale. Quattro sono gli atteggiamenti suggeriti: dirigere, addestrare, sostenere e delegare.
Il criterio di base utilizzato per stabilire l’atteggiamento da tenere è la maturità del team. Maturità intesa sia in senso strettamente lavorativo e professionale, che in senso psicologico. Nel primo caso si parla di maturità nella capacità tecnica, nella conoscenza e nell’esperienza. Nel secondo caso si parla di disponibilità, motivazione, fiducia in sé stessi e solidità. Il comportamento del leader invece si intende sia nei comportamenti di relazione che nei comportamenti direttivi.
I comportamenti di relazione si manifestano proprio nei rapporti con i membri del gruppo, nella creazione di canali di comunicazione, nell’offrire un sostegno emotivo, nel gratificare e nell’assumere atteggiamenti agevolanti.
I comportamenti direttivi si manifestano invece nell’organizzare i ruoli, nell’individuare le attività da svolgere, nel definire come, cosa, quando.
Il leader di fronte a un gruppo di persone giovani e con poca esperienza, ad esempio, assumerà un atteggiamento direttivo che può sforare anche in un rigido “command & control”.
Invece, all’estremo opposto, un leader che si trovi di fronte a un gruppo professionalmente navigato, capace di prendersi in carico una sfida e di raggiungere il successo, nonostante problemi tecnici e difficoltà di vario tipo, assumerà un atteggiamento di delega, consapevole della capacità dei suoi collaboratori.
L’attività di addestrare è esercitata quando il team è ancora poco maturo ma di fondo c’è la disponibilità ad assumersi una responsabilità. In questo caso il leader avverte l’esigenza di insegnare come muoversi, come organizzarsi, come prevenire e affrontare i problemi.
Sostenere è il tipico atteggiamento da utilizzare di fronte a un team tecnicamente maturo ma senza un’adeguata fiducia nelle proprie possibilità.
Host Leadership (Mark McKergow e Helen Bailey, 2013)
Questo stile di leadership [7] è basato sulla metafora del padrone di casa che organizza una cena oppure una festa. Prima dell’evento si impegnerà affinché tutto sia ben preparato e pronto, poi durante l’evento dovrà adoperarsi perché tutto funzioni al meglio.
Da padrone di casa si curerà che le persone si sentano accolte e che stiano bene, agevolerà la conoscenza tra i presenti e non sarà eccessivamente invadente, ma se l’atmosfera si smorza si spenderà in prima persona per rianimarla. Se durante la festa qualcuno esce dai limiti è suo dovere intervenire, impartendo regole e prescrizioni che guidino il comportamento degli invitati.
I sei “ruoli” della host leadership
Gli atteggiamenti o i ruoli che il padrone di casa assume sono sei:
- iniziatore (initiator), cioè colui che innesca la scintilla ideando l’evento;
- selezionatore degli invitati (inviter), perché si circonda delle persone adatte per quell’evento;
- creatore dello spazio (space creator) fisico ed emotivo in cui si svolgerà l’evento;
- protettore di questo spazio (gatekeeper) rispetto ai disturbi provenienti dall’esterno e dall’interno;
- connettore (connector) tra gli invitati per agevolare la conoscenza reciproca;
- e infine partecipante (co-participator), come tutti gli altri.
I quattro “luoghi” dell’azione
I luoghi in cui il padrone di casa assume questi atteggiamenti sono quattro:
- al centro della scena (on the stage), quando si fa il brindisi oppure quando l’atmosfera deve essere rianimata;
- tra gli ospiti (among the people);
- sul terrazzo (on the balcony), dove osserva da lontano ciò che avviene;
- in cucina (in the kitchen), per rimediare personalmente dietro le quinte a eventuali problemi.
Numerose possibilità
Uscendo dalla metafora, il leader applica i sei atteggiamenti nei quattro luoghi; si crea cioè una matrice di 24 possibilità in cui un certo atteggiamento assume un significato diverso a seconda del luogo in cui viene svolto.
Il leader con questo modello possiede uno strumento per accrescere la consapevolezza dei suoi comportamenti e dispone di un più ampio ventaglio di possibilità e sfumature dell’atteggiamento, che arricchisce il suo bagaglio.
Intelligenza emotiva (Daniel Goleman, 1995)
Secondo Goleman, quella emotiva [5] è la parte dell’intelligenza che permette a ciascuno di noi di conoscere prima e di controllare poi le nostre emozioni, di trovare in noi stessi la motivazione che guida il nostro agire, di riconoscere le altrui emozioni e infine di gestire in modo equilibrato le nostre relazioni.
Quello proposto da Goleman è un percorso affascinante e molto utile nel processo di maturazione personale e sociale. Da queste considerazioni nasce il lavoro successivo legato alla leadership [6].
Goleman ci propone sei stili di leadership e anche in questo caso si tratta di atteggiamenti che possono e devono essere applicati in modo diversificato in funzione del contesto contingente in cui ci si trova ad operare.
I sei stili di leadership secondo Goleman
Il primo stile di leader descritto da Goleman è il leader visionario — nel senso che ha una visione d’insieme e di prospettiva, non nel senso che ha le “allucinazioni” — che è in grado di intuire e vedere con più chiarezza l’obiettivo ed è capace di mostrarlo agli altri, guidandoli nella direzione giusta.
Il secondo è il leader affiliativo, che si interessa in senso globale alle persone che collaborano con lui tendendo a diventare loro amico. Questo lo espone con evidenza al rischio che poi alcune sue scelte siano condizionate da questo rapporto di confidenza e amicizia.
Segue quindi il leader democratico, che favorisce lo svilupparsi della partecipazione dell’intero gruppo, agevola la collaborazione e tiene conto di tutte le istanze che emergono dal gruppo. Non sempre questo stile è adatto: se il gruppo è bloccato, diviene necessario fare azioni più direttive per superare l’ostacolo.
Il quarto è il leader coach, che non è propriamente colui che indica una strada, ma che facilita l’emergere delle aspirazioni dei componenti del gruppo facendo domande e prospettando alternative, aiutando il singolo a trovare la propria motivazione e contribuendo a definire una sintesi complessiva, che poi il gruppo stesso implementerà concretamente.
Il quinto è il leader battistrada: nella metafora sportiva è colui che dà il ritmo a tutta la squadra. Secondo Goleman lo stile “battistrada” si applica quando il gruppo è bloccato e richiede più o meno esplicitamente una guida “forte”, capace di farlo uscire dal pantano. È uno stile che dovrebbe essere usato solo in circostanze specifiche e per brevi periodi di tempo.
Analogamente anche il leader autoritario dovrebbe palesarsi di rado, come il “manager eroe” che dall’alto comanda e controlla tutta l’organizzazione, impartendo ordini e attendendo risultati. Questo non è un atteggiamento sbagliato di per sé: in alcuni contesti semplici, in cui è chiaro il risultato da ottenere e il come ottenerlo, la presenza di un’autorità che coordina le attività è sicuramente efficace. Invece è scarsamente efficace in contesti complessi, come abbiamo già avuto modo di sottolineare.
Adattare lo stile al contesto
Tra i sei stili, Goleman identifica i primi quattro come positivi, perché capaci di instaurare un clima collaborativo ed empatico, mentre gli ultimi due, negativi e tendenzialmente da evitare, possono però essere utili in circostanze eccezionali.
Conclusioni
I contenuti rilevanti che ho voluto sottolineare in questo articolo sono la necessità di evidenziare il cambiamento in corso, di affrontare la complessità e di mostrare quanto la leadership sia coinvolta in entrambi.
Esistono poi degli strumenti identificabili con gli stili di leadership proposti: l’invito è quello di adottare quello ritenuto più adatto alla propria personalità e al proprio contesto. Bisogna essere consapevoli che, in quanto strumenti, vanno adoperati con attenzione, sostituendoli con altri se si rivelassero inefficaci.