Introduzione
Il 2 marzo scorso, presso il politecnico DEIB di Milano, si è tenuta la conferenza Agile for innovation. Nel programma della giornata, al pomeriggio, insieme a Bernhard Sterchi [1] ho presentato il workshop dal titolo “Metodi decisionali in contesti complicati e complessi”. Bernhard svolge da diverso tempo consulenze in ambito del complexity management ed è per questo che, visto il mio sempre crescente interesse riguardo l’argomento, ho proposto a Bernhard di presentare un workshop che parlasse di complessità e di metodi decisionali.
Metodologie decisionali
Il motivo per il quale sia così importante parlare di strumenti decisionali, risiede nella difficoltà di applicare il modello più adatto al contesto. Spesso ci troviamo ad applicare modelli decisionali “istintivi” ovvero casi in cui siamo non disponendo di informazioni attendibili o metodi oggetti, si procede a “decidere di pancia”. Un’ottima lettura in questo senso che spiega i tranelli che ci tende il nostro cervello è un classico della materia: Pensieri lenti e veloci [2].
L’applicazione di una metodologia in campo decisionale può migliorare questa situazione. Quando ci muoviamo in un contesto complicato niente è comprensibile a prima vista, anche se tramite l’analisi dei fatti è possibile arrivare a una conclusione sillogistica. Nel dominio del complesso, invece, le causalità non sono stabili, né chiare. Si deve agire sulla base di una conoscenza parziale, sapendo che ogni intervento cambierà in maniera irreversibile il sistema dentro il quale ci muoviamo. Quindi, invece di un approccio analitico, serve applicare un approccio per tentativi. Sono due strategie fondamentalmente diverse.
Nel workshop che abbiamo presentato abbiamo fornito alcuni strumenti pratici che possono aiutare a scegliere coscientemente la strategia decisionale più adatta al contesto.
Cynefin
Il nostro workshop si è basato sul Cynefin framework che classifica la realtà in 4 aree ben distinte: scenario semplice, complicato, complesso e caotico. Già in precedenza su questa rivista abbiamo parlato lungamente del modello e delle differenti tipologie di operative necessarie in questi casi.
Il workshop
L’idea era quella di fornire ai partecipanti gli strumenti per trovare le risposte alla classica domanda “adesso che faccio?”.
Per raggiungere questo obiettivo abbiamo suddiviso il workshop in tre fasi distinte: nel primo abbiamo mostrato come i bias mentali e le decisioni istintive possano influenzare le nostre decisioni. Successivamente abbiamo mostrato due strumenti, il Modello a scoring ponderato e il Disney Method più adatti, rispettivamente, nel contesto complicato e complesso.
Modello decisionale in contesto complicato
Il Cynefin framework ci dice che all’interno di un contesto complicato il corretto pattern operativo è Sense-Analize-Respond (figura 3): si procede prima a una raccolta di informazioni, seguita da una analisi oggettiva (analisi) per poi proporre poi una azione.
Per tradurre in pratica questo schema, si possono prendere in esame varie possibilità: quella che abbiamo proposto al workshop prende spunto dal metodo Kepner-Tregoe (il vero nome è Kepner – Tregoe Problem Solving and Decision Making – PSDM [3] e dal metodo di San Gallo (St. Galler Entscheidungsmethodik [4]).
In questo caso l’esercizio proposto ai partecipanti, prevede le seguenti fasi:
- Cogliere la situazione
- Di che cosa si tratta?
- Che cosa fa parte della decisione, che cosa non c’entra?
- Qual è la struttura della situazione? Quali sono i sintomi, quali sono le cause?
- Come vogliamo procedere nel processo decisionale?
- Elaborare la situazione
- Cogliere dei fatti più ampi/dettagliati sulla situazione
- Qual è lo scopo e l’obiettivo della decisione?
- Quali criteri dovrebbe raggiungere la soluzione per soddisfarci?
- Quali sono le possibili soluzioni?
- Quale soluzione soddisfa al meglio i criteri?
- Quali rischi e conseguenze sono implicati nella soluzione preferita? E comunque la migliore soluzione?
- Decidere
- Ultimo check dell’elaborazione
- Decisione
- Piano d’azione
- Come gestiamo i rischi e le conseguenze?
- Follow through e follow up
Nello specifico nel workshop abbiamo concentrato l’attenzione sul secondo punto, ovvero sulla individuazione delle possibili opzioni e sulla loro valutazione. Per fare questo ai partecipanti è stato proposto come esercizio la decisione sull’automobile da acquistare, tramite l’applicazione del Modello di scoring ponderato (figure 4 e 5).
Modello decisionale in contesto complesso
Quando si opera in un contesto complesso, prendere le decisioni è un’attività completamente differente rispetto al caso precedente. Secondo il modello Cynefin, non possiamo affidarci agli esperti né tantomeno abbiamo a disposizione pattern o best practice da applicare.
In questo contesto il pattern comportamentale (Probe-Sense-Respond) prevede di iniziare con piccole sperimentazioni al fine di raccogliere informazioni dai risultati, per poi infine produrre un piano d’azione. In questo contesto quindi è importantissimo sperimentare, provare nuove strade e aprirsi a scenari del tutto nuovi; farsi sorprendere.
In tal senso può essere utile quindi provare spiegare meglio quale sia l’anatomia di un esperimento; per fare questo possiamo utilizzare una definizione suggerita da Dave Snowden che il giorno successivo al nostro workshop ha tenuto una corso di un giorno sulla complessità. In tale occasione Dave ha ricordato che un buon esperimento dovrebbe:
- avere un nome
- avere un scopo
- come dovrebbe apparire il sistema se hai successo?
- come amplificare o portare altrove?
- come dovrebbe apparire il sistema se fallisce?
- come evitare che accada altrove?
- l’esperimento è coerente con lo scopo?
- dovrebbe essere naive (p.e. coinvolgere persone con competenze innovative, fuori contesto, essere illogico)
Nel nostro workshop abbiamo quindi proposto uno strumento che risponde a una caratteristica fondamentale del modello operativo in un contesto complesso, ossia quello dell’apertura, di alternare fasi di totale “apertura” a nuove idee ad altre di valutazione e sintesi: si tratta del cosiddetto Disney Method (già apparso sulle colonne di MokaByte, in un reportage dalla unconference Play14 [5]), del quale andremo a fornire una breve descrizione operativa qui di seguito,
Il Disney Model
Questo strumento, utilizzato come metodo di brain storming all‘interno degli studios della celebre casa cinematografica da cui prende il nome, ha lo scopo di favorire l’emergenza di nuove idee alternando fasi di lavoro creativo — in certi casi spingendosi in contesti del tutto immaginari e irrazionali — a fasi di critica e di analisi realistica dei fatti.
Le tre fasi del metodo Disney
Una sessione di Disney Method si compone quindi di tre fasi distinte che sono ripetute ciclicamente fino a che il team pensa sia utile per investigare ulteriormente.
Le tre fasi sono associate ai tre tipici atteggiamenti che si possono realizzare quando un gruppo di persone si riunisce per discutere su nuove idee; usando le definizioni originali di Disney, i tre atteggiamenti sono: The Dreamer (il sognatore) , The Realist (il realistico) e The Spoiler (il critico).
Il modello risponde bene alla necessità di “aprire” a nuove opzioni come raccontato nel paragrafo precedente proprio grazia all’alternanza di momenti di totale fantasia e altri di razionalità.
The dreamer
Nella prima fase, quella del dreamer, il team in genere si attiva per inventarsi soluzioni anche le provare a mettere sul tavolo idee tramite un approccio fantasioso e visionario, senza preoccuparsi della fattibilità o della concretezza della cosa. Questa è la fase dreamer in cui si punta a produrre idee, anche le più strampalate. Al termine della sessione di dreaming si selezionano quelle 4-5 idee che passeranno poi al vaglio nelle fasi successive.
The realist
Nella fase successiva, si mette in azione l’atteggiamento realistico, in cui ogni partecipante analizza l‘idea emersa alla fase precedente: in questa fase si cerca di capire se sia possibile definire un piano di implementazione. Si lavora ancora con un approccio positivo, ossia non ci preoccupiamo di trovare i punti negativi o la non realizzabilità del progetto; per fare questo si deve attendere la fase successiva.
La fase realistica si compone di due sottofasi: la prima è quella dell’implementazione, ossia ci si chiede come trasformare ogni idea in qualcosa di più realistico o semplicemente realizzabile. Con le risorse a disposizione, come si potrebbe rendere questa idea una idea di successo. Come la si potrebbe implementare?
Successivamente, prima di procedere alla fase successiva, quella della critica, si prova a selezionare alcune idee sulla base dei seguenti criteri
- idee di maggior valore per gli utenti finali;
- rapidità di implementazione e minor costo;
- quelle idee che sono maggiormente “inspiring”.
The spoiler
Infine nella terza fase, la critica, si analizzano le idee rimaste dopo il filtro della fase due, cercando di metterle in discussione con spirito critico. In questo momento non necessariamente si devono eliminare le idee ma si prova a trovarne i punti deboli (per poi stimolare nuovamente la fase creativa con nuovi spunti e idee).
In questo momento si gioca il ruolo dell’avvocato del diavolo: queste idee hanno senso? Quali sono le implicazioni/problemi di questa idea? come valutano questa idea gli utenti? ci piace? è il meglio che possiamo fare? è economicamente sensato eseguire questa idea?
Al termine della terza fase dovrebbero rimanere poche idee, meglio se una sola, che verranno poi nuovamente passate alla fase del dreamer per ricominciare nuovamente. Il modello viene applicato in modo iterativo fino a che il gruppo riesce a trovare nuove soluzioni interessanti.
Accorgimenti relativi al Disney Method
Quando il gruppo passa da una fase all’altra è bene che tenga sempre ben chiaro in quale fase si trova facendo attenzione a non mescolare i diversi approcci mentali: non essere critici quando si è in dreaming, o viceversa non trovare soluzioni quando si è in fase di critica.
Per questo può essere utile avvalersi di spazi differenti per la gestione delle diverse fasi, per esempio con stanze organizzate in maniera diversa per favorire i diversi tipi di interazione. Per esempio si potrebbero utilizzare colori differenti per le varie stanza o anche avvalersi di una differente disposizione logistica: nella stanza del dreamer si potrebbe mettere l‘idea al centro e le persone intorno che discutono liberamente; la stanza del realistic si potrebbe invece metter l‘idea sul lato corto della stanza e le persone sono disposte a ferro di cavallo mettendo in luce come trasformarla in qualcosa che funzioni; nella stanza del critic l‘idea è sul lato lungo della parete, le persone sono disposte su una riga come se fossero una giuria per l‘idea progettuale che ne mette in luce gli aspetti più deboli.
Uno dei punti di forza del Disney Method è quello di consentire a tutti di partecipare ai lavori anche se non portati per attitudine o cultura personale a svolgere determinate attività. Chi per esempio non si trova a suo agio con la fase di dreaming potrà dare spazio alla sua natura razionale in quelle successive. Utile a volte che il facilitatore guidi la riunione con commenti del tipo “comprendo il tuo scetticismo, ma per il momento proviamo a trovare tutte le possibili soluzioni; il tuo contributo di analisi critica ci sarà molto utile quando dovremo valutarle nella fase successiva”.
Il Disney Model ricorda per certi versi quanto riportato da Tom De Bono nel suo famoso libro Sei cappelli per pensare [6].
Conclusione
Il workshop tenuto, anche se durato appena 2 ore, ha permesso ai partecipanti di sperimentare tecniche anche molto differenti fra loro (dalla più razionale e matematica a quella più fantasiosa e perfino assurda). L’obiettivo della giornata era quello di far comprendere come sia importante scegliere un metodo decisionale in funzione del contesto all’interno in cui ci si muove e che quindi non è corretto seguire sempre lo stesso schema di pensiero.