Introduzione
Abbiamo dedicato i post precedenti all’approfondimento di alcune modalità di misurazione e alle metriche che si possono definire per capire se il prodotto stia portando un effettivo valore ai suoi utenti. Le metriche di alcune funzioni, quando non sono uno standard, sono particolarmente evidenti da scegliere e monitorare, per esempio il tempo che occorre per terminare una richiesta di bonifico bancario. Altre non lo sono affatto, anzi. Proviamo a raccontarlo con un caso reale.
Ilaria — co-autrice di questa serie di articoli — è diabetica di tipo 1. Di recente le è capitato di avere a che fare con un prodotto fisico e digitale molto particolare, al quale ha dedicato alcuni post [1], [2], [3] sul suo blog. Si tratta di un microsensore collegato via Bluetooth al suo smartphone e in grado di mostrarle “live” sull’app il dato glicemico. Lo scopo è quello di aiutarla a tenere sotto controllo in autonomia la sua glicemia e di ridurre il numero dei controlli tramite pungidito e glucometro.
Ma nulla più del suo racconto in prima persona può spiegare l’esperienza con il microsensore e la sua piattaforma digitale, sia dal punto di vista dell’utente che lo impiega per gestire la propria condizione di diabetica, sia dal punto di vista dell’esperta di UX design.
Life critical
Mi hanno diagnosticato il diabete di tipo 1 nel 2010. Ci convivo e, francamente, non ricordo neanche più come sia vivere senza. È un insieme di abitudini e di attenzioni che impari e che diventano una specie di antenna sempre accesa.
Trattandosi di una delle tante malattie che tocca tenersi per la vita, ho sempre cercato di prenderla dal verso giusto. Nel primo post che ho scritto sul mio blog a riguardo, ho provato a raccontare come la vedo io… e so benissimo che non è così per tutti.
Gli utenti non sono tutti uguali
Quando si parla di queste cose, è fondamentale che il team di prodotto abbia ben presenti chi potrebbero essere le persone che lo useranno, perché in questo caso parliamo anche di situazioni di questo tipo: genitori che gestiscono i propri figli diabetici; figli che si prendono cura di un genitore malato; persone che hanno non solo questa ma anche altre malattie (non di rado il diabete va per esempio a braccetto con la celiachia).
Ci sono persone che, per ragioni disparate, più che “vivere la malattia” direi “si lasciano vivere dalla malattia”, diventandone vittime. C’è poi il diabete gestazionale, quello infantile, quello appena conclamato e quello che hai da anni…
Se siamo owner, designer e sviluppatori di un prodotto mirato ad aiutarti a gestire il diabete, quando veniamo alle metriche, che cosa sta davvero misurando il team? Che cosa vuole sapere davvero? Che cosa è in grado di vedere davvero?
Nel caso del prodotto per diabetici che sto usando ormai da qualche mese, continuo a chiedermi queste cose: le metriche che stanno misurando servono ai produttori per capire come migliorare il prodotto oppure servono loro per venderlo meglio? O forse la scala di valutazione che mi hanno sottoposto ha gli stessi scopi del NPS di cui abbiamo parlato nel terzo articolo [4] di questa serie?
Piccolo Bignami di una malattia cronica
A proposito di abitudini e del chi: quando parliamo di diabete di tipo 1, parliamo di una persona che nella vita è abituata a portare con sé — o a farsi portare — almeno due cose fondamentali.
La prima, è la sostanza che il suo pancreas ha smesso di produrre: l’insulina, cioè l’ormone che assimila gli zuccheri nel sangue (l’ormone gemello è il glucagone, che ha la funzione inversa)
La seconda è il kit del glucometro, ossia un piccolo strumento che che permette di vedere il valore glicemico del sangue analizzando in modo velocissimo una goccia di sangue posta su apposite strisce reattive. Un non-diabetico non ha bisogno di conoscere questo dato perché insulina e glucagone si autoregolano per tenere sotto controllo il valore glicemico, ma un diabetico deve monitorare costantemente, più volte al giorno, il valore della glicemia.
Oltre all’insulina e al kit glucometro (strumento, strisce reattive, pungidito, aghi monouso etc.), probabilmente la persona diabetica porterà con sé anche un diario su cui appuntare tutti i suoi valori e che gli servirà per gli incontri con il dottore. Io ne ho circa 4 all’anno.
L’insulina da iniettare
Il legame tra diabete e insulina è stato scoperto a inizio Novecento da due medici canadesi, che hanno quindi provato a sintetizzarla e usarla come rimedio alla malattia. Fino alla fine degli anni Novanta circa, si usava l’insulina a rilascio rapido, da consumare prima dei pasti per contrastare l’aumento dello zucchero nel sangue. Più di recente, la ricerca ha scoperto l’insulina a rilascio lento e il calcolo dei carboidrati, due rimedi che aiutano il diabetico a essere più libero e autonomo.
L’insulina è di solito contenuta in “penne” per iniezione che consentono di dosare esattamente le unità di insulina. Quella a rilascio rapido si inietta 4 o 5 volte al giorno, tipicamente prima dei pasti; quella a rilascio lento si inietta 1 volta al giorno, possibilmente sempre al solito orario stabilito.
Il diabetico di tipo 1 sa che dovrà farsi punture per tutta la vita; se non altro, oggi usiamo dei minuscoli aghi che si applicano alle “penne” ma, fino a quindici anni fa, si usavano sottili siringhe dette appunto “da insulina”. In contesti sociali come la scuola, l’ufficio, il ristorante… i diabetici erano visti come drogati.
La misurazione della glicemia
La misurazione del valore dello zucchero nel sangue (glicemia) si fa con uno strumento detto glucometro: tipicamente avviene 3 o 4 volte al giorno ma, nel primo periodo, anche 6 vote o più, finché non si impara bene. Per misurarla, è necessaria una goccia del proprio sangue, che si ottiene pungendo un dito.
Gli “strumenti” indispensabili
Nel corso degli anni, glucometro e insulina sono diventati due oggetti a cui penso come si pensa al cellulare o alle chiavi. Entrambi sono senza il minimo dubbio migliorabili e un giorno li guarderemo come oggi guardiamo alcuni dei primi strumenti chirurgici che si trovano in qualche museo.
L’insulina in penne va tenuta in frigo ed è iniettabile solo previa punturina; la dose si chiama “bolo” e l’unità di misura del bolo si chiama, appunto, unità. Queste unità vanno decise in base al tipo di pasto, di giornata, di periodo che si sta vivendo e al tipo di insulina a rilascio lento che si usa: per quanto mi riguarda, dopo dieci anni continua a essere un calcolo che in alcune giornate è più esoterico che matematico. L’insulina va tenuta al fresco; quindi, se esco, la porto con me usando un portabiberon refrigerato con ghiaccino.
Il glucometro è invece un oggetto che si tiene chiuso nella sua custodia: questa può assomigliare a un portafoglio che contiene una macchinetta, delle strisce reattive di plastica — molto costose peraltro —, degli aghetti pungidito e il pungidito. Per conoscere il tuo valore di glicemia, devi farti un piccolissimo buco su un dito, usando il pungidito “armato” con i suoi appositi aghi, in maniera analoga a quando ti misurano il valore di ferro prima di donare il sangue.
L’evoluzione dei prodotti
Negli ultimi anni la aziende farmaceutiche hanno creato prodotti che mirano a sostituire insulina e glucometro (microinfusori) oppure solo il glucometro (microsensori). Per varie ragioni, mi è stato proposto di provare il microsensore.
Ora: quando li ho visti con i miei occhi, ho pensato che la parola “micro” fosse decisamente fuori luogo. Nelle mie conversazioni con la dottoressa che me li stava proponendo, invece, mi era molto chiaro che per lei quella parola fosse un dato di fatto.
Ci ho messo un anno a decidermi e ho accettato di cambiare le mie abitudini per gradi e di dare quindi una chance al “micro”sensore. Dal momento in cui ho detto sì, ho passato due mesi che non dimenticherò.
Tempi di apprendimento e calibrazione
Le mie aspettative erano più o meno queste: vado in ospedale, parlo con il bioingegnere che mi darà il materiale e mi spiegherà l’app e tempo un’ora sarò a casa. Finalmente potrò mettere nel cassetto almeno glucometro. Evviva, pensavo tra me e me con vaga apprensione. Abbandonare il glucometro non mi rendeva del tutto serena, così come attaccarmi addosso un sensore di cui non sapevo nulla (aspetto, funzionamento, durata…).
Col senno di poi, è invece andata che il glucometro non è finito nel cassetto, anzi. Mi serve ancora circa due volte al giorno per calibrare il sensore. Ma soprattutto, per cambiare le mie abitudini e capire come rapportarmi con il sensore e l’app, ho impiegato due mesi. Non un’ora.
Due mesi è anche il periodo che ho impiegato per capire se l’antiesteticità del microsensore fosse per me accettabile e bilanciato dal beneficio di conoscere il mio valore glicemico quasi “live” e i trend di caduta o aumento, oltre che avvisi in caso di valori fuori soglia.
Questa fase di onboarding e apprendimento per me è finita il giorno in cui non solo ho imparato a cambiare il microsensore in totale autonomia, ma ho anche imparato a configurare l’app nel modo per me più adatto. Ci ho messo un mese e mezzo a capire come temporizzare lo snooze delle notifiche e delle notifiche urgenti. E l’ho scoperto per caso.
Un po’ di riflessioni
Se “cambio prospettiva” e comincio a guardare le cose non solo dal punto di vista dell’utente, ma anche da quello di chi, per professione, si occupa di UX experience dei prodotti e delle metriche per valutarla, nascono una serie di riflessioni.
Se io fossi stata nel team che ha progettato e sviluppato il microsensore, oggi capisco che una valutazione così errata sui tempi di adozione da parte del team avrebbe prodotto un problema molto grave e non banale da sistemare una volta uscito il prodotto. Torneremo più approfonditamente su questo nel prossimo articolo.
Usiamo le metriche giuste?
Dato che il “micro”sensore è un oggetto che posso togliere quando voglio — in particolare, questo modello va sostituito ogni 5 o 6 giorni—, ho deciso di tenermelo. Ci sono anche altri motivi che spiego più diffusamente sul mio blog [1] [2] [3].
Dopo aver scritto quei post, ho scoperto che altre persone avevano vissuto molto male quell’oggetto: quando lo indossi in un punto visibile, provi lo stesso sottile imbarazzo che senti quando indossi una benda o una fasciatura. Senti gli occhi puntati addosso anche se non è così. Senti in ogni caso che alcune persone lo notano e ti guardano con un bel: “Che cos’è? Stai bene? Hai qualcosa che devo sapere anch’io?”. Ho saputo di persone che lo hanno provato e lo hanno restituito proprio per queste ragioni.
Quando ho dato il mio OK a proseguire, il Sistema Sanitario si è attivato per inviarmi una scorta di microsensori per i prossimi 6 mesi; ci tengo a sottolineare che, al momento, nelle Marche questo servizio e questi prodotti sono per me ancora del tutto gratuiti e sul mio blog [1] spiego anche perché potrebbero non esserlo più.
Quando sono andata a ritirarli, l’infermiera che me li ha consegnati mi ha chiesto se li avrei usati anche d’estate. “Sì, e non faccio fatica a capire perché me lo chiede.” è stata la mia risposta. Mi ha spiegato che “molte persone smettono di usarlo durante l’estate. I sensori hanno una scadenza e sono molto costosi, meglio saperlo prima.” Già.
Feedback e questionari
Durante il primo incontro con il bioingegnere, ho dato il consenso a farmi intervistare dal Servizio Clienti. Ero molto contenta di poter dare il mio feedback, essere ascoltata e magari contribuire a migliorare un prodotto così cruciale per me. Circa tre settimane dopo ho ricevuto la loro telefonata, che è durata circa un’ora e, al termine, mi sono chiesta: “Ok, che cosa è successo?”. Ero disorientata.
Il mio gentilissimo ricercatore ha seguito il suo protocollo in modo molto professionale, riuscivo quasi a vedere il modulo con i campi che doveva seguire, forse anche quelli obbligatori e facoltativi e magari un campo note generico. La prima parte dell’intervista era più libera e strutturata con domande aperte (esplorativa), la seconda era più netta e con domande chiuse e varie scale di valutazione da 0 a 10 (valutativa).
Alla prima domanda “Allora, come sta andando con Sensor 3?”, ho risposto “Poter vedere il valore glicemico in ogni momento, gli avvisi etc. è veramente molto utile. La parte peggiore è che il sensore è così antiestetico che mi sembra di essere una paziente per 24 ore al giorno.”
“È solo un periodo, ti ci abituerai.” mi ha replicato lui.
“Ok, lo so che lo farò, ma non è questo il punto. Sto dicendo che è molto brutto e che mi sento imbarazzata, specialmente quando ce l’ho sulla spalla e devo andare per esempio in palestra. Se mi sento così ora, come sarà quest’estate?” ho ribattuto io.
“Oh sì, capisco. Sai, è andata così anche per gli occhiali. All’inizio le persone non erano contente di indossarli”.
Mi piace conservare questo tipo di risposta come esempio di pregiudizio che impedisce alla persona che raccoglie il feedback di capire davvero ciò che sta ascoltando e di cogliere quindi una vera opportunità di miglioramento del prodotto. La risposta risulta involontariamente fastidiosa, come quando si confessa a qualcuno un particolare problema e quello lo liquida con un luogo comune, tipo il classico “Pensa a chi sta peggio.”
Quali delle informazioni che ho condiviso arrivano davvero a chi sta producendo il microsensore (hardware e software)? Ho avuto una sensazione di corto-circuito: per me paziente, il valore di questo prodotto era per metà alto e per metà pessimo e glielo stavo dicendo, ma il ricercatore mi dava la netta sensazione di essere interessato solo a metà del dialogo. Perché mi stava intervistando, allora?
Feedback per il miglioramento?
Un altro dialogo che annovero tra i corto–circuiti di valore tra prodotto / attori del sistema sanitario / pazienti è quello che ho avuto con la dottoressa, dopo circa due mesi che stavo provando il microsensore e mi sentivo di essere quasi uscita dalla fase di pre-adozione (onboarding).
Di solito le mie visite di controllo duravano 5 o 10 minuti. La dottoressa — giovane, veramente brava, molto chiara — sapeva di aver davanti una paziente classificata come “nuovo sensore” e quindi mi ha dedicato quasi un’ora, pur sapendo che il tempo medio di visita consentito è di 15 minuti: l’ho scoperto perché, durante la visita, ha ricevuto una telefonata e un commento dall’infermiera. È un’attenzione che ho apprezzato molto: mi è chiaro che per loro questi tempi costituiscono un problema.
Anche lei ha esordito con un “Allora, come va con il sensore?”. Ho dato la stessa risposta che avevo dato più di un mese prima al ricercatore, confermando il disagio di indossare un oggetto così brutto e i problemi di usabilità dell’app, ma elogiando il valore dell’informazione esposta — il dato sulla mia glicemia — e quindi il cambio di marcia sulla mia capacità di controllare i valori. La dottoressa ha risposto con un “È brutto, sì… Comunque, se stai imparando a controllarti in questo modo, tra poco sarai pronta a passare al microinfusore!”.
L’effetto di questa risposta su di me rimane ancora piuttosto sconcertante… È una sensazione simile a quando fai il bagno al mare, ti entra dell’acqua nelle vie respiratorie, inizi a tossire cercando aria e quando finalmente l’hai ritrovata qualcuno arriva e ti butta acqua in faccia, togliendoti di nuovo il fiato.
Il microinfusore ha sicuramente tutti i pregi che la dottoressa mi ha elencato subito dopo. Si tratta di una macchinetta grande più o meno come quelle scatoline che si agganciano alla cintura quando ti attaccano il microfono alla maglietta per parlare in pubblico. Se il microsensore l’ho chiamato “vongola”, il microinfusore per me è sempre stata “la cintura di Batman”. E così ho risposto alla dottoressa: “Lei come si sentirebbe ad andare sempre in giro, in palestra, in ufficio, in spiaggia, a letto, in intimità… con la cintura di Batman?”.
Ora, va detto che io ho la fortuna di potermi permettere questo dialogo. Intendo dire che non solo il Servizio Sanitario mi dà la possibilità di usare gratuitamente un prodotto che, se dovessi pagarlo di tasca mia, mi costerebbe quanto un affitto mensile; ma posso anche decidere di dire: “No, mi basta così…”.
Ci sono persone con il diabete di tipo 1 che purtroppo reggono molto male le ipo- o le iperglicemie, e quando dico “molto male” intendo che rischiano letteralmente di andare in coma glicemico o di morire. Ci sono altre persone che non stanno decidendo per sé stesse, ma per altri. Ci può essere un genitore che decide che il proprio figlio deve mettersi il microinfusore. Ci sono persone che iniziano a curarsi affidandosi fin dal principio a questi oggetti e non a quelli che uso e usavo io. Cioè, ci sono persone che non hanno scelta.
Se i Product Owner foste voi?
A questo punto, torniamo al ruolo “istituzionale” di autori della serie, anche se il racconto di Ilaria come paziente ha il merito di fornire numerosi spunti concreti e pratici per ragionare sul tipo di metriche UX di cui finora abbiamo parlato in termini più teorici.
Può capitare che i motivi per cui alcune metriche non vengano misurate siano la scarsa obiettività sul prodotto: non si misura un certo flusso o una certa funzione perché si sta dando per scontato che vada bene così; oppure che siano legati a logiche aziendali, che potrebbero sentirsi minacciate quando esposte al feedback su quella funzione o quel gruppo di funzioni. Ma i motivi possono essere anche molto più banali: inesperienza, tempistiche, cambiamenti aziendali o nel team, cambiamenti nella piattaforma o nei tool e così via.
Nel caso reale che abbiamo qui illustrato, l’azienda che produce il sensore si sta senza dubbio impegnando a raccogliere feedback sui suoi prodotti. Eppure, nonostante alcune criticità del prodotto sembrino essere molto evidenti e impattanti sulla vita dei pazienti, e nonostante vari pazienti le abbiano fatte presenti, l’azienda non dà l’impressione di coglierle davvero e di dare loro importanza.
Oppure potrebbe essere che le metriche che si stanno usando sono rivolte a misurare il valore prodotto più per il Servizio Sanitario che non per il paziente. Quest’ultima spiegazione ci sembra la più logica: d’altronde il cliente è proprio quello, e non i pazienti che, al massimo, possono restituire il dispositivo.
Pensate per un attimo di essere il Product Owner di un prodotto come il microsensore; quali potrebbero essere le metriche in grado di darvi le informazioni giuste per misurare il valore rilasciato? Quando pensate al valore, chi ne beneficia? Con quale ratio andreste a mettere in priorità il vostro backlog e scegliereste la prossima funzione da sviluppare?
Conclusioni
Con tutte queste domande in sospeso, nel prossimo articolo parleremo proprio di mappatura dell’esperienza, di metriche UX e KPI scelte in base al modello di business e del valore rilasciato, applicando tali concetti al caso reale raccontato in questo articolo.