Ancora sul concetto di Antifragile
L’antifragilità è quella caratteristica che permette a un sistema complesso di trarre beneficio dai fattori di stress, dall’incertezza, dalla variabilità, da qualcosa che reca un danno. Se ciò che è fragile o robusto teme l’incertezza e il danno, l’antifragile ama l’imprevisto, lo stress il fallimento, perché può avvantaggiarsene.
Introdurre antifragilità è un processo che di frequente è associato a contesti complessi dove l’approccio tipico è quello dell’iterazione e della sperimentazione, dove il successo non è la sola opzione possibile. Se, da un lato, il fallimento è qualcosa che vorremmo sempre evitare, nel creare un’organizzazione antifragile dovremmo porci nelle condizioni di poter trarre beneficio dal danno e quasi di esserne contenti.
Se, per esempio, volessimo introdurre un nuovo modello organizzativo liquido o sociacratico (p.e. la tanto discussa Holocracy), che tipo di beneficio potremmo avere se il tentativo di introdurlo in azienda dovesse fallire?
Capita purtroppo che dal fallimento non si ottenga alcun tipo di beneficio , finendo per affidarci al caro e vecchio “learn by fail”: le cose sono andate male, ho capito che questa cosa non è da ripetersi; ho imparato qualcosa, dal fallimento ho tratto un beneficio.
Si potrebbe dire quindi che imparare dai propri errori potrebbe essere una forma (debole) di antifragilità.
In realtà, quando si fanno esperimenti, stiamo svolgendo attività connesse con il contesto reale dove ci muoviamo e per questo non è detto che si possa sempre apprendere dai nostri errori.
Nel suo libro La quinta disciplina [1] [5], Peter Senge parla di impedimenti all’apprendimento e dice che per creare una “organizzazione che apprende”, è necessario creare i presupposti all’apprendimento. Anche di questo argomento si è già parlato in passato su questa rivista [6], vorremmo riprendere questi concetti in chiave antifragile.
Gli impedimenti dell’apprendere
Peter Senge nel suo libro parla di vere e proprie Learning Disability: che ci impediscono di apprendere e quindi di non trarre beneficio da un danno, un errore, un incidente; questi pattern sono:
- Io sono la mia posizione
- Il nemico è là fuori
- Proattività e reattività
- La fissazione sugli eventi
- La parabola della rana bollita
- La disillusione dell’apprendimento dall’esperienza diretta
- Il mito del management team
Non li ripercorriamo qui tutti, alcuni non hanno diretta connessione con il tema dell’antifragilità. Se foste interessati, consigliamo la lettura dell’articolo pubblicato in passato [2].
Io sono la mia posizione
Negli Stati Uniti degli anni Ottanta, durante una grave crisi industriale in un distretto per la lavorazione dell’acciaio, agli operai delle fabbriche di una azienda che aveva deciso per un piano di licenziamento piuttosto importante, fu proposta della formazione per il collocamento in nuove mansioni lavorative. Con grande meraviglia dei responsabili del piano di aiuti, pochissimi aderirono a questo piano. Gli psicologi interpellati per scoprire le cause di tale reazione evidenziarono negli operai una forte crisi di identità di fronte al cambiamento prospettato. La risposta tipica era “Io sono un operatore di tornio; come potrei fare altro?”.
Indagini più approfondite evidenziarono che le persone associavano la loro presenza in fabbrica all’insieme delle operazioni e delle mansioni svolte: nessuno menzionava lo scopo, il motivo per cui svolgevano quelle mansioni. Quasi tutti si vedevano parte di un sistema sul quale non avevano alcuna influenza. Le persone non riuscivano a percepire l’importanza del contribuire al successo dell’azienda per esempio spostando il loro lavoro in altre aree o mansioni.
Potremmo dire quindi che se le persone comprendono il senso del loro lavoro sono disposti a mettersi in gioco, sperimentare, a proporre o imparare nuovi modi per creare valore. Solo il coinvolgimento di tutti e la condivisione dello scopo del lavoro del singolo sono condizioni essenziali per la nascita di una organizzazione che apprende.
Si può quindi trarre beneficio — e quindi creare antifragilità — dall’apprendimento nei momenti di difficoltà solo coinvolgendo le persone spiegando loro il motivo di una determinata iniziativa o di un esperimento e condividendo il senso del loro contributo nel complesso più ampio.
Il nemico è là fuori
A causa della difficoltà nel collegare nel tempo e nello spazio la conseguenza delle nostre azioni, facciamo fatica a considerare ciò che è fuori come risultante o strettamente collegato al ciò che proiettiamo verso l’esterno. Il nemico è là fuori è il pensiero più frequente.
Attribuiamo spesso le difficoltà che incontriamo a qualcuno esterno al nostro gruppo di lavoro: “i capi non capiscono”, “la divisione A non collabora”, “le persone della produzione non sanno costruire prodotti di qualità”, “i venditori non sanno vendere”, “i clienti non capiscono” e molte altre ancora.
Spesso invece il nemico non è affatto la fuori (e non è nemico).
Pensiamo a un gruppo di persone che debbano lavorare insieme, per esempio per produrre un qualche prodotto o erogare un servizio.
È probabile, anzi è auspicabile, che queste persone inizino a interagire fra loro per il raggiungimento dello scopo: si parleranno, agiranno, collaboreranno.
Ben presto, questa continua interazione fra le persone darà a vita una serie di pratiche e processi condivisi o addirittura a una comune visione del mondo. Nasce il gruppo che identifica anche un confine oltre il quale ci sono “gli altri”.
Dagli “altri” arriveranno più o meno regolarmente sia richieste di lavoro, input di vario tipo ma anche giudizi e valutazioni che influiscono sul lavoro del team.
Normalmente il gruppo reagisce inviando verso l’esterno, oltre a quanto prodotto col proprio lavoro, anche messaggi, valutazioni, osservazioni.
Collegare i flussi in uscita con quelli in entrata è certamente difficile: spesso si deve ammettere che il comportamento “assurdo” degli altri è collegato al proprio.
Il nemico è la fuori finisce quindi per essere un alibi per non indagare su un esperimento o una iniziativa che ha fallito. L’alibi è quindi un efficace freno all’apprendimento e a provare quindi a essere — seppur debolmente — antifragili.
Proattività e reattività
Ultimamente si parla moltissimo di proattività, ossia di quella attitudine di anticipare un problema più che reagire quando questo si manifesta.
Nella maggior parte dei casi. però. proattività viene intesa come una forma di preveggenza — sui problemi che si potrebbe verificare — finendo spesso per essere solo rapida reattività; è bene farsi trovare pronti quando un problema si verifica, ma (rapida) reattività non significa proattività. In genere significa risolvere problemi quando questi si sono già verificati.
Essere proattivi significa cambiare radicalmente approccio, passando dal mettere toppe al provare e sperimentare. Otterrete antifragilità non tanto “prevedendo” il futuro, ma provando a eliminare i punti di debolezza ed eliminando le fragilità.
Riprendendo un concetto caro a Taleb [7], il rischio non si può misurare, la fragilità sì. Il rischio è strettamente collegato con il concetto di probabilità che qualcosa possa accadere (previsione); fragilità invece è qualcosa che può portare danno sotto stress. Di fatto la proattività si può avere introducendo un processo sperimentale e iterativo che provi a rimuovere i punti di debolezza, che si romperanno e che che richiederanno di essere rapidi nella soluzione.
La fissazione sugli eventi
Nel corso dell’evoluzione l’uomo ha sviluppato meccanismi gli hanno permesso di sopravvivere e di evolvere. Abbiamo imparato a mettere a fuoco gli eventi che ci toccano direttamente e reagire per sopravvivere: “uomo primitivo vede orso che si avvicina minaccioso… uomo primitivo scappa”.
Questa strategia sta dimostrandosi inadatta in un mondo come quello attuale, dominato da incertezza e complessità, dove è praticamente impossibile trovare una consequenzialità negli eventi, fra cause e conseguenze.
Il meglio che possiamo fare è provare a immaginare quello che accadrà domani e agire di conseguenza senza però riuscire a imparare e a creare qualcosa di nuovo. Proattività e reazione, quindi, non innovazione.
La disillusione dell’apprendimento dall’esperienza diretta
Ci è stato insegnato che la forma di apprendimento più potente ed efficace è quella che deriva dall’esperienza diretta. La maggior parte delle cose che facciamo abitualmente — camminare, mangiare, andare in bicicletta, nuotare — l’abbiamo imparata da piccoli semplicemente iniziando a farlo direttamente in prima persona.
Tipicamente siamo in grado di applicare il metodo sperimentale diretto quando le conseguenze delle nostre azioni si riflettono sul “qui e ora”. Ma quando un’azione si riflette in un altro tempo o altro luogo, cosa che accade quando ci muoviamo in un contesto complesso, è quasi impossibile imparare dall’esperienza. E questo porta a un paradosso: impariamo meglio dall’esperienza diretta ma, proprio quando servirebbe, non riusciamo a sperimentare direttamente.
I cicli evolutivi sono spesso difficili da evidenziare perché sono lunghi e poco chiari. Quindi portare antifragilità grazie all’apprendimento dai propri errori è difficile se causa ed effetto sono separati dal tempo e dallo spazio. Possiamo in parte ovviare applicando una visione sistemica, per esempio provando ad applicare il system thinking, come proposto da Senge nel suo libro.
Se imparare è così difficile…
Abbiamo detto che una forma, seppure debole, di antifragilità si potrebbe avere quando un esperimento va male e si cerca quindi di trarne un apprendimento. Ma abbiamo anche visto, dai concetti di Senge, quanto sia difficile apprendere dall’esperienza e dall’osservazione della realtà delle cose.
Per questo, voler portare antifragilità grazie all’apprendimento derivante dal fallimento è cosa molto difficile da applicare. Il consiglio è quello di ricercare antifragilità seguendo i principi implementativi come riportato nel Manifesto Antifragile [3] [4]:
- Non chiudersi in una gabbia dorata
- Accogliere l’incertezza
- Installare la cultura della sperimentazione
- Evitare l’approccio “so io come si fa” oppure “chiediamo a un esperto”
- Evitare le soluzioni deterministiche calate dall’alto
- Aumentare la ridondanza adattativa
- Promuovere la cultura della collaborazione
Giovanni Puliti ha lavorato per oltre 20 anni come consulente nel settore dell’IT e attualmente svolge la professione di Agile Coach. Nel 1996, insieme ad altri collaboratori, crea MokaByte, la prima rivista italiana web dedicata a Java. Autore di numerosi articoli pubblicate sia su MokaByte.it che su riviste del settore, ha partecipato a diversi progetti editoriali e prende parte regolarmente a conference in qualità di speaker. Dopo aver a lungo lavorato all’interno di progetti di web enterprise, come esperto di tecnologie e architetture, è passato a erogare consulenze in ambito di project management. Da diversi anni ha abbracciato le metodologie agili offrendo ad aziende e organizzazioni il suo supporto sia come coach agile che come business coach. È cofondatore di AgileReloaded, l’azienda italiana per il coaching agile.