Una doverosa premessa
Non sono medico, non faccio ricerca su entità biologiche che infettano l’essere umano e si trasmettono da persona a persona, non mi occupo di emergenze pubbliche come operatore o dirigente della Protezione Civile.
Penso, oltretutto, che la mia opinione specifica sulla gestione di questa emergenza non sia sufficientemente interessante da essere condivisa con altri e, in questo, credo che la vignetta di ZeroCalcare qui sotto sia il commento più sensato ed efficace, in tempi in cui tutti sentono il dovere di dire sempre qualcosa a proposito di tutto.
Questo non è un articolo in cui si tenta di capire se le mascherine siano o meno efficaci [1], o in cui si illustra un tutorial che spieghi come lavarsi efficacemente le mani… il che ovviamente non avrebbe senso sulle pagine di MokaByte [2].
Dal momento però che mi occupo del modo in cui migliorare in un’ottica Lean/Agile processi produttivi in organizzazioni complesse, come in genere è ad esempio l’attività di sviluppo del software, l’attuale situazione sanitaria che coinvolge il nostro Paese — e anche molte altre nazioni — mi ha suscitato alcune considerazioni in termini di antifragilità, tema che seguo ormai da anni [6].
Chiaramente non aspettatevi soluzioni per risolvere la situazione: per questo occorre il concorso comune di scienziati, medici, esperti di emergenze, economisti, politici e cittadini comuni. E tempo.
La crisi che stiamo vivendo è seria, e la decisione di chiudere le scuole in tutta Italia per molti giorni è di quelle forti, e ha creato scompiglio anche in quei contesti come molte aziende aziende che, per adesso, a torto o a ragione, erano rimasti aperti. Paradossalmente ha più impatto questo della chiusura delle aziende. Se lo scopo — comprensibile — è cercare di far rimanere la gente a casa, questa forse è la mossa più efficace.
Per concludere questa lunga premessa, il mio intento è semplicemente di impiegare il “caso d’uso” nuovo coronavirus / Covid-19, per provare a capire meglio cosa significhi essere antifragili e per introdurre qualche concetto nuovo.
Cosa sta accadendo
I fatti sono noti. Un nuovo virus del genere Coronavirus — il nome specifico è SARS-CoV-2 — che causa una sindrome o malattia denominata Covid-19 [1], si sta diffondendo in molte aree del mondo. Per la sua natura di estrema contagiosità, visto che la popolazione è sprovvista di anticorpi naturali e che non esiste al momento un vaccino, tale virus rappresenta una oggettiva situazione di pericolo. Questo non tanto per la percentuale di mortalità della sindrome, quanto piuttosto perché se si ammalano tante persone, il sistema sanitario non sarà in grado di curarle tutte contemporaneamente in maniera adeguata.
Al momento la sola arma che abbiamo per contenere l’epidemia è quella della riduzione delle situazioni che favoriscano la diffusione del contagio, fino ad arrivare all’isolamento di chi è malato o è stato in contatto con persone che si sono ammalate.
Le misure adottate per contenere la diffusione del contagio stanno paralizzando il nostro Paese, e non siamo i soli. Questa strategia dovrebbe funzionare, ma manca una controprova diretta, vale a dire vedere come potrebbero aumentare i contagi se tutti ci proiettassimo in luoghi affollati violando la distanza di sicurezza (droplet area [2])… Ma è una prova che nessuna persona sana di mente vorrebbe fare. In questo caso vogliamo fidarci degli esperti…
In questo periodo quindi in moltissimi settori differenti, esperti di vario tipo si stanno mobilitando per analizzare il momento e per provare a capire se modelli, teorie, ipotesi siano corrette o se possiamo capirci qualcosa di nuovo. Questo drammatico momento è di fatto un efficacissimo laboratorio a cielo aperto per economisti, medici e farmacologi, studiosi di modelli statistici, teorici della complessità e quant’altro.
Anche noi possiamo prendere spunto da tutto questo per capire meglio cosa sia l’antifragilità. Con un esempio.
È questa l’antifragilità?
In questi giorni in molte città italiane le ordinanze di contenimento — molte strutture chiuse e molti lavoratori svolgono le loro mansioni in smart working da remoto — hanno ridotto drasticamente il flusso di auto per le strade e di persone sui mezzi pubblici, come documentato dalle immagini qui pubblicate.
In questo contesto desolante, qualche giorno fa un sito che si occupa di ciclismo, di mobilità sostenibile, traffico e inquinamento, ha pubblicato un articolo dal titolo Milano, inquinamento e coronavirus: allora il problema non sono le caldaie [7].
Nell’articolo si riportava come la drastica riduzione del traffico nella zona lombarda, legata al “blocco” da Coronavirus, avesse portato a una evidente riduzione dell’inquinamento da polveri sottili e altri inquinanti. L’articolo voleva evidenziare non tanto il beneficio ricevuto in un momento di estrema difficoltà — chi ha girato in quei giorni per il centro di Milano per esempio avrà certamente potuto notare quanto la città fosse deserta e il traffico ridotto drasticamente — quanto invece come la riduzione stessa del traffico abbia portato alla riduzione dell’inquinamento: una prova che l’inquinamento atmosferico delle aree metropolitante non sarebbe così legato al riscaldamento di abitazioni e uffici, come qualcuno da tempo sosteneva, quanto piuttosto al traffico veicolare.
L’ipotetica lezione appresa
Da questi dati e questa correlazione, sembrerebbe che un danno (prevenzione contagio —> riduzione attività economiche —> riduzione traffico ) abbia portato un beneficio immediato (aria meno inquinata) ma anche un ulteriore beneficio in termini di conoscenze: adesso sappiamo che l’inquinamento dipende soprattutto dalle automobili e meno dal riscaldamento. Con queste acquisizioni, potremmo finalmente agire sulle automobili per migliorare drasticamente e per sempre l’aria che respiriamo nelle zone ad alta urbanizzazione. Non è forse questo un caso di Antifragilità, ossia di un sistema che, ricevendo un danno, esce addirittura rafforzato da questa contingenza?
In realtà, nelle ore successive alla pubblicazione della notizia, la redazione di Bike Italia, con atteggiamento molto corretto, ha rimosso la notizia in seguito a una serie di approfondimenti, che mostravano come i dati ARPA utilizzati non fossero stati interpretati in maniera pienamente corretta e quindi non giustificassero una correlazione tanto diretta fra riduzione del traffico e miglioramento della qualità dell’aria. Ah… allora questo non è un caso di Antifragilità quindi, perché la correlazione tra riduzione delle attività economiche e miglioramento della qualità dell’aria non è sicura.
Il passo successivo: risultato antifragile o fortuito?
In realtà, dal mio punto vista, che studio antifragilità da tempo, questa notizia prima data e poi smentita è comunque utile per innescare un ragionamento sul concetto di antifragilità. Detto molto semplicemente, anche se la correlazione riduzione delle attività —> miglioramento dell’aria fosse stata proprio vera — cioè che dal danno fosse derivato un beneficio — mi spiace deludere il lettore… ma non si sarebbe trattato di un risultato antifragile.
Per come intendo io il concetto, questa non è antifragilità, ma un risultato fortuito: un po’ di fortuna nella disgrazia…
Perché fortuna e non antifragilità?
Vediamo di giustificare meglio questa affermazione che potrebbe non apparire immediatamente chiara. Antifragilità è una attitudine o caratteristica del sistema che consente di avere benefici anche quando le cose vanno male. In questo caso non possiamo dire di aver nessun merito nell’aver scoperto qualcosa.
L’attuale sistema di trasporti e di riscaldamento — chiamiamolo per semplificare “il sistema inquinante” — non è stato pensato e costruito per essere in grado di fornire benefici qualora ci sia un blocco del traffico. Tant’è che spesso, siamo costretti a fare il contrario: fermare il traffico — riducendo il sistema inquinante — per poter migliorare la qualità dell’aria.
In tal senso, non è antifragile ciò che, fortuitamente, magari solo una volta, produce un beneficio in reazione a un danno. Lo è ciò che è intrinsecamente strutturato per farlo nella sua totalità. Perché quindi questa cosa è interessante? Perché introduce il concetto di precursore di antifragilità.
Dalle toppe all’antifragilità passando per il precursore antifragile
Spesso, quando parlo con clienti e studenti del miei workshop emerge quella che nel tempo ho chiamato “strategia della toppa”, che funziona così.
A un certo punto faccio questa domanda: “Essere antifragili vuol dire aver un beneficio quando arriva un danno. Facciamo un esempio, che beneficio potresti trarre se la tua azienda / organizzazione / team perdesse un valido collaboratore? O se un cliente bloccasse la collaborazione?”. Tipicamente, la risposta tipicamente è: “Se accade X, allora io faccio Y”.
Questa è quella che io chiamo azione riparatoria, ovverosia una… toppa. Sono certo che nel vostro lavoro di tutti i giorni siete bravissimi a mettere in atto azioni riparatorie. Ma essere antifragili non vuol dire “E allora dopo succede qualcosa che mi porterà un beneficio”. Essere antifragili vuol dire che dal danno stesso, dal fattore di stress, possiamo ricevere un beneficio perché il nostro sistema è progettato per questo.
Possiamo dire che il beneficio casuale non è indice di antifragilità perché non è ripetibile. È caso. O fortuna, a seconda del vostro modo di vedere la realta…
Il precursore di antifragilità
Ma quando abbiamo un danno e corriamo ai ripari possiamo comunque sfruttare l’evento in chiave antifragile. Se ci rendiamo conto che dobbiamo mettere una toppa e il nostro sistema è massimamente fragile, probabilmente potremmo dire che serve un cambiamento. Dobbiamo evolvere verso un sistema antifragile (vedremo poco sotto cosa vuol dire).
Quindi potremmo dire aver individuato un precursore di antifragilità. Lo schema potrebbe quello illustrato nelle figure che seguono.
In un contesto fragile, a uno stimolo negativo, a un danno, mi limito a reagire, mettendo una toppa. Magari la cosa funziona anche bene, ma è una soluzione locale e temporanea. Alla prossima perturbazione, il sistema fragile non reagirà autonomamente e sarà necessario identificare e applicare una nuova toppa (figura 6).
In un contesto antifragile, il sistema è già in grado di assorbire il danno, adattarsi e reagire in maniera da produrre un beneficio (figura 7).
Quel che è importante capire, però è come si arriva al sistema antifragile. Il precursore di antifragilità è quel contesto in cui, pur non essendo (ancora) antifragile, l’organizzazione permette di provare nuove soluzioni per muovermi verso una organizzazione antifragile. Provo a cambiare qualcosa per evolvere verso un nuovo modello organizzativo che sia maggiormente in linea con i principi dell’antrifragilità (figura 8).
Quindi cosa dobbiamo ricercare?
Se ci rendiamo conto che siamo in un contesto precursore di antifragilità, dobbiamo perseguire quel processo di cambiamento volto ad abilitare l’antifragilità. Nella pratica, dobbiamo cercare di implementare i principi dell’antifragilità, che abbiamo provato a elencare nel Manifesto Antifragile [8].
- Non chiudersi in una gabbia dorata: evitare di iperproteggere il sistema indebolendo la sua capacità di rispondere a eventi imprevisti e critici.
- Accogliee l’incertezza: allenare il sistema a reagire agli imprevisti.
- Sperimentare – inspect & adapt: preferire strategie basate sulla sperimentazione, tramite tentativi e miglioramenti. Accogliere il fallimento come veicolo di informazioni e come strumento di crescita.
- Evitare l’approccio “so io come si fa”: mettere in discussione le soluzioni calate dall’alto e la voce degli esperti. Non è scontato che soluzioni dimostratesi efficaci in passato siano ancor applicabili con successo nel presente o nel futuro.
- Evitare le soluzioni deterministiche calate dall’alto: evitare di agire secondo regole e schemi predefiniti. I cambiamenti in atto richiedono flessibilità e convergenza tra le iniziative, le esperienze e le necessità. Stimolare un approccio sperimentale.
- Aumentare la ridondanza adattativa: non limitarsi a replicare la stessa soluzione di un sistema, ma provare strategie differenti, concorrenti, alternative.
- Promuovere la cultura della collaborazione: definizione e condivisione di obiettivi comuni. Approcci orientati alla co-creazione. Evoluzione delle gerarchie.
Da fragile a precursore
Non è detto che sia sempre possibile passare da un modello fragile a uno antifragile. A volte non ci accorgiamo che stiamo continuando a compiere continuativamente solo azioni correttive: la fabbrica delle toppe… In questi casi potrebbe essere difficile implementare anche uno solo dei principi elencati sopra.
Un passaggio più semplice, o intermedio, potrebbe essere quello di provare a muoversi verso un sistema precursore di antifragilità, ossia lavorare per creare le condizioni — o rimuovere gli impedimenti — per abilitare il cambiamento.
Per esempio, un’organizzazione fortemente gerarchica, basata su processi rigidi e una forte dipendenza dal modello che si è data, potrebbe fare molta fatica a sperimentare e creare opzioni alternative.
Abbiamo parlato a lungo in passato su quali possano essere le strategie per abilitare questo percorso: ne abbiamo parlato per esempio quando abbiamo parlato di organizzazioni che apprendono e quando abbiamo introdotto i primi principi dell’antifragilità [3] [4] [5].
Un esempio: la trasformazione agile
Ultimamente si sente parlare spesso di trasformazione agile di una organizzazione o azienda, a indicare il processo di cambiamento organizzativo volto a introdurre la filosofia agile e i relativi strumenti di lavoro. Si tratta in questo caso di qualcosa che non si limita all’implementazione di Scrum o Kanban, ma di qualcosa di più ampio che ha a che fare con le gerarchie, i gruppi di lavoro, il sistema di retribuzione e quello premiante, HR, e altro ancora.
Chi è a capo della trasformazione spesso individua una serie di punti su cui costruire la nuova organizzazione. Uno di questi è il modello organizzativo di scaling: se da un lato Scrum o Kanban sono gli strumenti elementari usati dai team per “produrre cose”, si pone il dubbio su quale tecnica usare per permettere a questi gruppi di collaborare — un solo team non può fare tutto — e coordinarsi, visto che un prodotto spesso deve essere sviluppato da differenti team che devono produrne parti differenti. Si parla appunto di modelli di scaling, ossia di modelli organizzativi che consentano di “scalare” lo schema di lavoro di un team (Scrum o Kanban) a tutta l’azienda.
Negli ultimi anni, grande risonanza ha avuto il cosiddetto Spotify Model che permette di adattare alcuni concetti presenti nell’azienda prima della trasformazione agile. Ma calare dall’alto un modello predeterminato è una strategia che indebolisce l’organizzazione creando fragilità. E allora, come potremmo trasformare un’organizzazione da un lato applicando un modello di scaling e, al contempo, creare un contesto precursore antifragile?
Dall’applicazione del modello alla creazione di un “ecosistema”
Per rispondere a questa domanda forse dovremmo far comprendere che il punto nodale della trasformazione, il focus dei change agent e dei “responsabili della transizione”, non deve essere tanto l’applicazione del modello, ma piuttosto l’abilitazione di un “ecosistema” in cui le persone possano mettere in discussione il modello stesso, cambiarlo, sperimentare nuove soluzioni, varianti, modifiche.
Un’organizzazione antifragile deve abilitare la creazione di soluzioni in modo emergente dal basso: significa lavorare sul modello organizzativo e renderlo meno vincolato possibile; significa per esempio lavorare con le regole aziendali, i sindacati, il sistema di retribuzione, per abilitare il cambiamento. Significa non dover dipendere dall’organigramma aziendale per ogni cambio di persone: il sistema SAP ci obbliga a mettere un capo per ogni team, che è quello che approva le ferie… anche se questo non serve e anzi potrebbe essere un impedimento al creare un sistema antifragile.
A proposito di Coronavirus e Antifragilità
Nella prossima puntata parleremo degli effetti che lo scenario attuale ha portato nella nostra vita e come un contesto antifragile — o precursore dell’antifragilità — possa aiutarci a limitare i danni o a trarne beneficio.