Introduzione
In questo articolo riprendiamo a svariati anni di distanza le riflessioni fatte a suo tempo insieme a Luca Bergero [4], che riguardavano il tentativo di definire un “manifesto” che traducesse al meglio i concetti espressi nel libro Antifragile [1] di Taleb.
I concetti di fragilità, robustezza, resilienza e antifragilità sono al centro della trattazione del libro. Ma sarebbe davvero riduttivo limitarsi a questo per definire un testo tanto significativo quanto complesso. CI sono infatti tanti elementi, tante riflessioni, tante divagazioni che forse possono a tratti “sviare” il lettore.
Ci piaceva allora sintetizzare i concetti fondamentali del libro — così come rielaborati grazie a numerose esperienze pratiche in azienda — in un più semplice e lineare manifesto.
La parte iniziale di questo articolo prsenta i valori e i principi del manifesto Antifragile, mentre la seconda parte riporta una serie di approfondimenti e spiegazioni dei concetti introdotti precedentemente.
Valori del manifesto antifragile
L’antifragilità è quella caratteristiche che permette a un sistema complesso di trarre beneficio dai fattori di stress, dall’incertezza, dalla variabilità.
- Antifragilità debole: ottenere lievi miglioramenti a livello locale grazie a piccoli fattori di stress.
- Antifragilità forte: creare le condizioni affinché un danno locale, a uno dei suoi elementi costituenti, possa portare un beneficio a livello sistemico.
- Strategie emergenti: far emergere tramite esperimenti il modo con cui l’organizzazione si comporterà. Un sistema antifragile sperimenta il modo con cui sperimentare.
- Non misurare il rischio, ma il livello di fragilità: il rischio non è misurabile, si misurano solo gli impatti dell’incidente. La fragilità è misurabile: identificare i punti di debolezza e intervenire per sostituirli.
- Cultura dell’apprendimento: promuovere il valore del fallimento, stimolare un apprendimento sistemico
Un buon modo per implementare i valori dell’antifragilità sonsiste nel tradurli in principi applicabili.
Principi del manifesto antifragile
- Non chiudersi in una gabbia dorata: evitare di iper-proteggere il sistema indebolendo la sua capacità di rispondere a eventi imprevisti e critici.
- Accogliere l’incertezza: allenare il sistema a reagire agli imprevisti.
- Sperimentare – inspect & adapt: preferire strategie basate sulla sperimentazione, tramite tentativi e miglioramenti. Accogliere il fallimento come veicolo di informazioni e come strumento di crescita.
- Evitare l’approccio “so io come si fa”: mettere in discussione le soluzioni calate dall’alto e la voce degli esperti. Non è scontato che soluzioni dimostratesi efficaci in passato siano ancora applicabili con successo nel presente o nel futuro.
- Evitare le soluzioni deterministiche calate dall’alto: evitare di agire secondo regole e schemi predefiniti. I cambiamenti in atto richiedono flessibilità e convergenza tra le iniziative, le esperienze e le necessità. Stimolare un approccio sperimentale.
- Aumentare la ridondanza adattativa: non limitarsi a replicare la stessa soluzione di un sistema, ma provare strategie differenti, concorrenti, alternative.
- Promuovere la cultura della collaborazione: definizione e condivisione di obiettivi comuni. Approcci orientati alla co-creazione. Evoluzione delle gerarchie.
Se si desidera approfondire meglio i concetti appena visti, suggeriamo di proseguire nella lettura.
Ampliamo la discussione
I valori e i principi a cui ispirarsi per rafforzare il livello di antifragilità all’interno della propria organizzazione hanno come fattore comune quello di creare un sistema in grado di sperimentare, di guardare il fallimento come stimolo per apprendere e cambiare, di non puntare solo a proteggere il sistema dagli stress esterni e dall’incertezza, ma di imparare a vivere nelle avversità, resistendo, come obiettivo minimo o, meglio, sfruttandole a proprio vantaggio, come destinazione privilegiata.
Le soluzioni che fanno crescere un’organizzazione non sono quindi quelle che promuovono una protezione totale e costante, che si vincolano a percorsi dettati dall’alto, ma quelle che riconoscono il valore dell’errore come elemento di crescita, che sottolineano la natura preziosa delle idee emergenti, del contatto diretto con il campo, riuscendo a creare una sintesi efficace tra visione sistemica e maturità operativa.
Sono quelle che nutrono lo sviluppo di una cultura della collaborazione e dell’apprendimento, che sfruttano il danno locale per favorire la crescita a livello globale, che promuovono la capacità di includere nel sistema elementi in grado di stimolarlo frequentemente per innescare, verificare e attivare processi di antifragilità.
In questo modo, mantenendo una visione sistemica, le organizzazioni non solo potranno resistere contro gli eventi imprevisti, ma saranno pronte a trarne dei vantaggi.
Una delle domande fondamentali a cui riteniamo si debba cercare di rispondere, nelle condizioni attuali di mercato e di evoluzione del mondo del lavoro è: “Ha senso concentrarsi sulle previsioni e sul calcolo del rischio, pur essendo consapevoli della presenza di elementi a elevata fragilità?”
Approfondimento: valori del manifesto antifragile
Di seguito, ampliamo la discussione per quanto attiene ai valori del manifesto antifragile.
Antifragilità debole: mitridatismo
Un primo tipo di antifragilità, che Taleb [1] chiama debole, è quella che si ha quando piccoli fattori di stress possono portare a livello locale lievi miglioramenti.
In medicina, per esempio, si parla di mitridatismo, dal nome del sovrano Mitridate VI del Ponto (132–63 a.C.) che temeva di essere avvelenato; il mitridatismo consiste nell’abituare gradualmente una persona a tollerare sostanze nocive, per esempio si può immunizzare una persona sensibile al veleno di un imenottero tramite una somministrazione di dosi crescenti del veleno.
Una variante dello stesso principio è rappresentata dalla ormesi, riconosciuta chiaramente da Paracelso, il fisico-alchimista tedesco Theophrastus Bombastus von Hohenheim (1493-1541). Paracelso si era reso conto, nella pratica medica, che l’efficacia delle sostanze tossiche dipendeva principalmente dalla dose: per esempio, a minime dosi, alcool, caffeina e nicotina — tutte sostanze tossiche se assunte in quantità — avevano effetti stimolanti tollerabili dall’organismo. L’ormesi quindi è un modo per arrecare una piccolaquantità di stress o di danno in modo da portare un beneficio alla persona.
Si tratta di un primo esempio di antifragilità debole che Taleb chiama anche proto-antifragilità perché, sebbene il beneficio possa essere molto importante, oltre un certo limite la sostanza tossica non porta alcun miglioramento, ma anzi risulta dannosa.
In quest’ottica, prevedere nelle aziende e organizzazioni alcune azioni che sappiano stimolarne il proprio “sistema immunitario” risulta un grande vantaggio operativo. Pensiamo, ad esempio, a Netflix che regolarmente, attraverso il suo Chaos Monkey [5] mette in crisi in modo casuale i servizi o istanze all’interno della sua architettura.
Antifragilità forte: danno locale, miglioramento sistemico
Un aspetto interessante dell’antifragilità che la lega nuovamente alla teoria dei sistemi complessi è l’antifragilità di un sistema aggregato, gerarchico-frattale o più genericamente complesso. Come nel caso dell’antifragilità debole, anche qui l’esposizione a fattori di stress esterni porta a un rafforzamento; tale miglioramento, però, si manifesta a livello sistemico, mentre il singolo componente non si rafforza ma subisce un danno, e a volte muore: nel caso di un’azienda, ad esempio, fallisce.
Potremmo dire che l’evoluzione è possibile grazie alla fragilità del singolo e che un sistema complesso è antifragile solo se il singolo è libero di muoversi, sperimentare, agire senza preoccuparsi troppo delle eventuali conseguenze.
Se questo tipo di dinamica è tipica degli ecosistemi naturali, negli esseri umani l’istinto di conservazione ha fatto sviluppare nel corso della storia una sempre maggiore protezione del singolo individuo: ormai siamo abituati a curarci, a prendere medicinali, a ripararci dalle intemperie o dal contagio. Per la nostra mentalità moderna, (quasi) nessuno è disposto ad ammalarsi e magari a morire di qualche malattia trasmissibile, nell’attesa di sviluppare un’immunità a un dato patogeno, magari nel corso di qualche centinaio di anni… Da questo punto di vista, come esseri umani, siamo diventati quindi molto meno antifragili rispetto al passato.
Il danno locale porta quindi un beneficio al sistema nel suo complesso: se un singolo individuo può subire un danno permanente da una malattia, allora grazie alla selezione e alla diffusione dei corredi genetici più adatti a fronteggiare quel patogeno, si ottiene nel lungo periofo un beneficio per l’intera specie. Se un’azienda fallisce perché ha sbagliato strategia di business o per una sfortunata concomitanza di eventi che non era preparata a fronteggiare, le altre aziende imparano qualcosa di nuovo e migliorano.
Strategie emergenti
Un’organizzazione antifragile è tale se è in grado di evolvere, di cambiare pelle, di trasformarsi o meglio di avvantaggiarsi quando è sotto pressione. La sperimentazione è un elemento fondamentale in questo senso.
Tutto questo non può essere possibile se si impongono nel sistema regole predefinite e calate dall’alto. La struttura organizzativa e il modo di essere dell’organizzazione o del sistema, il suo modo di agire e di decidere devono derivare ed essere promossi privilegiando le strategie generate dal basso, in modo sperimentale ed emergente.
Abilitare strategie emergenti significa abilitare un approccio evoluzionistico agli elementi che compongono il sistema, o più concretamente alle politiche di gestione, alle regole, al modello organizzativo. Far emergere le strategie vuol dire far emergere tramite esperimenti il modo con cui l’organizzazione si comporterà. Estremizzando il concetto, possiamo dire che un sistema antifragile dovrebbe sperimentare il modo con cui sperimentare.
Non misurare il rischio, misurare il livello di fragilità
Il rischio non si può ralmente misurare: si misura in effetti solo quale sarà l’impatto se un determinato pericolo porterà a un incidente, e da questo si deriva il rischio. La fragilità, invece, è misurabile in quanto tale. Quando si parla di risk management, spesso si finisce per parlare di calcolo del rischio e non della sua riduzione o della sua gestione. Più precisamente, spesso si finisce a paralre degli impatti derivanti dall’incorrere in un evento drammatico: la strategia comunemente in uso è quella di cercare nella sequenza di eventi passati lo scenario peggiore e utilizzarlo per calcolare l’impatto di un evento futuro.
Riprendiamo a tal proposito quanto dice Taleb ne Il cigno nero [2]:
Per come la intendiamo oggi, la gestione del rischio è lo studio di un evento collocabile nel futuro, e solo alcuni economisti e altri folli possono pretendere, in barba all’esperienza, di “misurare” l’incidenza futura di questi eventi rari […] Più è raro l’evento, meno è gestibile e meno sappiamo sulla frequenza con cui accade. Eppure, più l’evento è raro e più questi “scienziati” che si occupano di prevedere si sentono fiduciosi.
Calcolare il rischio di un evento (raro) è quindi un’attività piuttosto priva di utilità se lo scopo è creare un’organizzazione antifragile. Stipulare una polizza assicurativa non protegge il sistema dai danni, né lo rende più forte. Fare una assicurazione sulla vita non ci rende immortali, o più longevi. Ci garantisce solo una qualche forma di rimborso in caso di malattia o morte.
Misurare la fragilità del sistema, identificando i punti di rottura, è un’attività molto più utile nonché realizzabile. Proviamo a capire meglio questo punto prendendo in considerazioni tre esempi di fragilità sistemica per capire il nesso (inesistente) fra antifragilità e calcolo del rischio.
Prendiamo il caso di un’azienda che produce software e trasformiamo il calcolo del rischio nella stima dei tempi (o costi) necessari per la realizzazione del prodotto: in soldoni, calcoliamo il rischio di non rispettare le tempistiche stimate. Proviamo quindi a immaginare alcune situazioni che possono ostacolare il lavoro del team, tanto da rendere molto difficile il rispetto delle scadenze.
Per esempio pensiamo a un team di sviluppo fortemente dipendente da una persona depositaria assoluta della conoscenza del prodotto: il team non è autonomo nel cambiare qualcosa, o peggio ancora, se manca il leader o l’esperto, non sa cosa fare. Altro caso potrebbe essere quello in cui il team risulti non essere autonomo nella realizzazione del prodotto, dovendo aspettare da altri la produzione di alcune parti (componenti, documentazione, infrastrutture).
Oppure si pensi all’azienda che appalta a un fornitore esterno la realizzazione di alcune parti del proprio prodotto, parti che saranno realizzate da un team esterno, del quale si ignora non solo il risultato finale ma anche la modalità di lavoro. Si pensi infine al caso in cui l’intero team, o parte di esso, sia composto da “persone prese in affitto” da fornitori esterni: espressione brutta; in inglese body rental suona meglio, ma il problema resta immutato…
Questi casi hanno in comune un fattore: la dipendenza da elementi esterni al gruppo di lavoro, elementi che possono influire pesantemente non solo sulla qualità finale ma anche sulle tempistiche produttive. In estrema sintesi, impattano sulla solidità della azienda che potrebbe non superare uno stress derivante da questi fattori: l’azienda che fornisce le persone in affitto decide di fare turn over, il fornitore esterno fallisce, il team leader si licenzia senza scrivere una riga di documentazione, e così via.
Cercare di ridurre i ritardi nella consegna del prodotto aumentando la pressione sul team o ricercando maniacalmente un modo “più preciso” di stimare è del tutto inutile se non si interviene eliminando le debolezze: in questo caso, le dipendenze del sistema.
Cultura dell’apprendimento
Il tema dell’apprendimento è legato a quello del fallimento e della sperimentazione, ossia alla capacità di creare nuove traiettorie di senso per ottenere informazioni sia dai risultati positivi sia da quelli negativi.
Il fallimento purtroppo non sempre viene visto come uno strumento di sense making ma assume una connotazione negativa: “Ho fallito…”, “Sono un fallito!”, “Abbiamo fallito la nostra ultima possibilità”. Il fallimento invece dovrebbe essere una fonte di informazione che permette di reperire, con il rischio minimo, nuovi dati. È quindi importante creare i presupposti per evitare che il fallimento sia precursore di frustrazione, giudizio, punizioni e altro ancora, lavorando sia su aspetti culturali che organizzativi.
Il tema delle organizzazioni che apprendono è di costante attualità per molteplici motivi. Per le organizzazioni, vuol dire intraprendere un percorso di crescita adattativa, ossia creare un tessuto che possa favorire dinamiche legate alla consapevolezza e un’abitudine ai feedback costruttivi, in grado di promuovere una crescita a tutti i livelli dell’organizzazione.
Analogamente prendendo spunto dai concetti presentati da Peter Senge [3], seguendo la linea dell’apprendimento, risulta estremamente utile prendere coscienza dei propri modelli mentali — sia a livello del singolo sia a livello dell’organizzazione — conoscendo la loro limitatezza e, al contempo, anche la loro utilità. Basare i propri interventi sui propri modelli mentali limitati e inconsapevoli è pericoloso, mentre averne consapevolezza, essere aperti a metterli in discussione e aggiungerne di nuovi — potenzialmente anche opposti — costituisce una delle chiavi per mantenere un atteggiamento in grado di rispondere positivamente al cambiamento.
Un’organizzazione che apprende, come sottolineato dallo stesso Senge, è quindi
un’organizzazione che continua a espandere la sua capacità di creare il proprio futuro
Non soccombere all’incertezza, sotto il peso degli imprevisti richiede quindi di riconoscere il valore della conoscenza tramite il fallimento, la messa in discussione dei propri modelli mentali, la promozione di una crescita continua, sia a livello personale che organizzativo.
Approfondimento: principi del manifesto antifragile
Dopo averne visto i valori, ampliamo nei paragrafi seguenti la discussione per quanto attiene ai principi del manifesto antifragile.
Non chiudersi in una gabbia dorata
Proteggere il sistema (l’azienda, l’organizzazione, il proprio team) è un obiettivo importante per evitare che esso si danneggi quando questo riceve fattori di stress. “Proteggere”, però, spesso si traduce nella creazione di barriere che impediscono alle perturbazioni di entrare in contatto con il sistema stesso.
Questo ha l’effetto negativo di ridurre la naturale tendenza dei sistemi complessi di sviluppare un “sistema immunitario” adattativo ed evolutivo. Il sistema immunitario di un organismo vivente e, per estensione, quello di un’organizzazione sono essi stessi dei sistemi antifragili, in grado difendere l’organismo vivendo, evolvendo, sopperendo e cambiando.
Un sistema immunitario applica una forma di antifragilità forte (vedi sopra). La iperprotezione spesso passa dal proteggere il sistema creando barriere — che sono robuste ma non antifragili — che tutelano fino a un certo livello di stress, ma al tempo stesso fanno scomparire gli anticorpi interni del sistema, i quali, se non sollecitati, perdono di utilità.
Una gabbia, per quanto dorata, è sempre una gabbia: indebolisce chi ci vive e prima o poi potrebbe comunque rompersi, rivelando la debolezza del sistema interno.
Accogliere l’incertezza
L’incertezza va vista come una potentissima palestra per mantenere in allenamento la capacità evolutiva e gli anticorpi di un sistema complesso.
Autonconvincersi di riuscire a debellare l’incertezza spinge a creare la pericolosa illusione di poter controllare il mondo o prevedere il futuro, di non aver necessità di un sistema immunitario adattativo, di non sperimentare.
L’incertezza invece, se usata come strumento, può essere una fonte di informazioni e apprendimento fondamentali per la salute degli ecosistemi organizzativi. L’incertezza deve essere benvenuta.
Sperimentare – inspect & adapt
Proprio al fine di non chiudersi in una gabbia dorata, si deve sempre provare a innovare a cambiare strategia, processo, struttura. Dato che non c’è un modo noto per cambiare e migliorare — del resto vogliamo evitare le soluzioni calate dall’alto — dobbiamo preferire strategie basate sulla sperimentazione, tramite tentativi e miglioramenti.
Ogni esperimento deve apportare novità e, per farlo, deve avere uno scopo, ossia deve essere in linea con la visione e aver chiaro l’obiettivo e il beneficio che ci si aspetta dal raggiungimento; inoltre deve essere possibile comprendere se e quando si è raggiunto l’obiettivo.
Deve permettere di indagare nell’ignoto senza però mettere a rischio l’intero sistema in caso di fallimento. Anche il fallimento deve essere analizzabile in ottica di miglioramento. In sintesi un esperimento dovrebbe avere certe caratteristiche e rispondere a certe domande, come di seguito riportato:
- avere un nome;
- avere uno scopo;
- “come dovrebbe apparire il sistema se hai successo?”;
- “come amplificarlo o portarlo altrove?”;
- “come dovrebbe apparire il sistema se fallisce?”;
- “come evitare che accada altrove?”;
- “l’esperimento è coerente con lo scopo?”;
- essere naive, per esempio coinvolgendo persone con competenze innovative, apparendo fuori contesto, risultando “illogico”.
Come anticipato nella trattazione dedicata ai valori, nell’ambito legato alla sperimentazione ricopre un valore fondamentale la cultura del fallimento. Ci teniamo a sottolineare nuovamente come questo debba considerarsi uno degli strumenti privilegiati per l’apprendimento e per la raccolta di informazioni utili al benessere delle organizzazioni.
In quest’ottica, saranno necessarie iniziative per permettere esperimenti safe-to-fail che porteranno a riconsiderare le proprie abitudini verso dinamiche in ottica safe-to-learn. Il fallimento non sarà quindi solo tollerato o bonariamente perdonato, ma verranno incoraggiate le pratiche in grado di mettere a fattor comune anche i risultati e gli esperimenti che non hanno centrato l’obiettivo previsto.
Evitare l’approccio “so io come si fa”
Un vecchio adagio, che si trova spesso nei manuali che parlano di complessità, dice che nel mondo del complesso non solo non sappiamo come fare le cose — il socratico “sapere di non sapere” —, ma addirittura che non sappiamo quali sono le cose che dovremmo sapere per poter risolvere un problema: non sappiamo cosa non sappiamo.
Per questo non ci si può affidare a ricette preconfezionate, a soluzioni calate dall’alto, perché semplicemente non è pensabile immaginare che ci sia un “esperto” o un “capo” che sappia quale sia il modo corretto di agire. Per chi ha avuto modo di leggere gli studi di Dave Snowden e il suo Cynefin Framework, saprà che nel dominio complesso — quello i cui ci muoviamo per la maggior parte del tempo nell’ambito delle grandi organizzazioni — non è pensabile chiedere all’esperto, perché nessuno è in grado basarsi solamente sulla propria esperienza o conoscenza per prevedere il futuro.
Chiedere a qualcuno come fare una cosa vuol dire affidarsi a soluzioni o idee utilizzate in passato, ma che non necessariamente sono replicabili o riapplicabili. In questa direzione è particolarmente utile riconoscere come molti di noi abbiano degli approcci e delle idee preferenziali che tendono a applicare indipendentemente dal contesto o dalla situazione specifica. Questa rigidità risulta potenzialmente pericolosa. Sappiamo invece come, ad esempio nel contesto della leadership, un’attitudine situazionale potrebbe meglio rispondere alle diverse esigenze, risultando più efficace.
Evitare le soluzioni deterministiche calate dall’alto
Applicare un processo deterministico vuol dire mettere in atto una serie di azioni pre-definite e fissate su metriche e razionale già calcolati. Ma il mondo è in continua evoluzione e quindi non è detto che quello che andava bene prima adesso possa funzionare altrettanto bene. Inoltre, riprendendo le considerazioni del punto precedente, è altamente improbabile che sia possibile giungere a un processo deterministico che sia efficace.
Questa è la forma di fragilità maggiore che si può introdurre nel sistema, perché si sta “costringendo” il sistema ad agire secondo schemi predefiniti, ricette preconfezionate. Il mondo cambia e richiede flessibilità. Quando parliamo di evitare le soluzioni deterministiche calate dall’alto non intendiamo dire che non sia più necessaria alcuna forma di management o leadership; crediamo invece sia indispensabile ricercare una convergenza di esperienze dalle diverse aree delle organizzazioni. Sarà in questo modo possibile sintetizzare le diverse forme di intelligenza, i diversi punti di vista del sistema organizzazione.
Sappiamo, per esperienza, che le forme di trasformazione aziendale in cui il management impone un cambiamento dall’alto sono rischiose quanto iniziative emerse solamente dal basso. In entrambi i casi, molto probabilmente, si innescheranno forme di fragilità disfunzionali per l’organizzazione, se considerata nella sua globalità. Occorre invece che l’auto-organizzazione venga riconosciuta e favorita ai diversi livelli, in modo condiviso.
Aumentare la ridondanza adattativa
La ridondanza, strategia che consiste nel replicare gli elementi di un sistema, è un ottimo modo per rafforzare la resistenza del sistema: quando viene a mancare un componente — che sia un server di rete o una persona del team — possiamo essere certi che il suo “clone” potrà sostituirlo per garantire il funzionamento sistemico.
Il problema con la ridondanza — in ambito IT si parla di clustering — è che si limita a replicare lo stesso schema puntando alla robustezza strutturale, ma non introduce alcuna forma di adattabilità e antifragilità. È una buona strategia per sopportare attacchi, stress e perturbazioni che “rompono” il singolo componente. Questa forma di robustezza mostra tutta la sua debolezza quando la minaccia non si limita ad attaccare il singolo componente, ma la natura stessa di quel componente: se il singolo componente non è in grado di resistere, perché le sue difese o la sua robustezza sono inadatti o insufficienti per quel tipo di perturbazione, immediatamente anche tutti gli altri componenti si troveranno in pericolo. Trovata una falla nella sicurezza informatica di un cluster di nodi, si potrà disabilitare con un singolo attacco tutta la rete.
Un esempio distante dal mondo IT, ma concettualmente analogo, è quanto sta succedendo alle piante di banano. Quasi la totalità dei banani coltivati nel mondo appartiene alla sola varietà Cavendish, che fornisce così quasi tutte le banane che mangiamo abitualmente sui mercati occidentali. Queste piante, oltre ad essere di un’unica varietà, hanno lo stesso codice genetico, essendo copie della stessa pianta originariamente scelta, perché la pianta viene riprodotta per clonazione. Quello che sta accadendo è che un fungo parassita, difficilmente curabile, sta mettendo a rischio il 99% della popolazione mondiale di tale pianta che non ha difese da quel tipo di fungo [6]. Si pensi che la Cavendish fu scelta in sostituzione di un’altra specie che nell’Ottocento era a rischio estinzione per un problema del tutto analogo.Nuovamente, anche questa è la dimostrazione che ciò che pensiamo robusto, in un attimo diventa fragile.
Per questo vogliamo un sistema antifragile, ed è per questo che si consiglia di rifuggire la ridondanza per clonazione, ma di provare soluzioni e strategie differenziate, concorrenti, alternative. Idealmente vorremmo che ogni elemento in un sistema svolgesse più funzioni e che ogni funzione potesse essere svolta da più elementi.
Promuovere la cultura della collaborazione
Ricollegandoci a uno dei principi cardine del manifesto agile, ossia il concetto di collaborazione, sottolineiamo l’importanza di definire un obiettivo comune sul quale concentrare le proprie energie e sul quale costruire progetti ritenuti importanti e condivisi.
In questo senso, si dovrebbe creare un contesto di collaborazione in cui tutti gli stakeholder possano non solo trarre vantaggio dalla creazione di un prodotto di valore — se stiamo parlando per esempio di una azienda che produce prodotto — ma espandere ulteriormente il concetto della collaborazione verso il tema della co-creazione.
Concretamente questo vuol dire che è importante modificare il modello organizzativo portandolo a superare il sistema cliente/fornitore; in questo modello, infatti, in modo quasi fisiologico si tende a creare una dipendenza legata a contratti più o meno stringenti e vincolanti, spesso fragili, talvolta robusti, ma sottoposti pericolosamente al mutare delle pressioni del mercato.
In aggiunta, pur essendo noto all’interno delle organizzazioni, il tema della collaborazione è spesso ancora affrontato in modo troppo superficiale. La teoria è conosciuta, potenzialmente condivisa, ma non sempre messa in pratica. Abbiamo evidenza di molteplici casi in cui pur investendo in un’opera di miglioramento dei processi, ad esempio con l’introduzione di metodologie agili come Scrum, non venga posta la dovuta attenzione nel trasformare le dipendenze tra diversi team o diverse aree in forme maggiormente collaborative, attraverso le quali si otterrebbe un vantaggio globale dell’organizzazione. Come anticipato nei valori di questo manifesto, quale senso ha investire energia nelle previsioni senza aver posto la sufficiente attenzione a eliminare le fragilità evidenti?
Il tema della collaborazione è strettamente legato all’evoluzione culturale delle organizzazioni, un percorso di crescita che può trarre notevoli benefici dalle pratiche emergenti legate alla valorizzazione del talento e delle competenze. In quest’ottica l’approccio command & control sta dimostrando i suoi limiti in molti ambiti.
Sappiamo, però, che il passaggio da modalità più tradizionali — almeno da un punto di vista storico — a modalità orientate alla condivisione e collaborazione richiede tempo e consapevolezza.
Conclusioni
In questo articolo abbiamo presentato una serie di valori e principi che vanno a costituire una proposta di “manifesto antifragile”. Nella prima parte, abbiamo enunciato queste proposizioni in modo sintetico, per chi ha già dimestichezza con l’Agilità e l’Antifragilità. Nella seconda parte dell’articolo abbiamo sviluppato questi concetti per chi si è da poco avvicinato a questi ambiti e desidera qualche spunto di approfondimento.
Riferimenti
[1] Nassim Nicholas Taleb, Antifragile. Prosperare nel disordine. Il Saggiatore, 2013 (ed. originale 2012)
[2] Nassim Nicholas Taleb, Il cigno nero. Come l’improbabile governa la nostra vita. Il Saggiatore, 2014 (ed. originale 2007)
[3] Peter Senge, La Quinta Disciplina. L’arte e la pratica dell’apprendimento organizzativo, Sperling & Kupfer, 1992
[4] Luca Bergero
https://www.mokabyte.it/autore/luca-bergero/
[5] Chaos Monkey di Netflix
https://netflix.github.io/chaosmonkey/
[6] Roberto A. Ferdman, Resteremo senza banane?, Il Post
http://www.ilpost.it/2015/12/07/epidemia-banane/