Guardare a un mondo che è già cambiato
Nelle aziende moderne, una gran parte delle persone fa due lavori. Uno è quello per cui è pagata — è stata assunta, quantomeno — e l’altro è il difendersi dalla confusione generata dal primo lavoro. Soprattutto nelle aziende in cui è in corso una trasformazione agile, in cui si spostano i team, in cui si ridistribuisce la leadership, si riduce la gerarchia, in cui si creano team con porzioni di persone part-time, a giornate.
Non è un tema nuovissimo e ne ho parlato a più riprese, in presentazioni a svariate conferenze. Con questa situazione, “tutti diventano HR” ed è un fenomeno su cui ci stiamo interrogando da molto tempo. Non riusciamo — almeno le aziende non riescono — a rispondere alle domande che ogni persona si fa in un’azienda.
Le domande degli individui
- Come sto andando?
- Come sto andando rispetto agli altri?
- Il mio ruolo funziona?
- Potrò accedere a una promozione, a un aumento?
- Se l’azienda cresce, cosa mi succederà?
- Se l’azienda invece ha una contrazione, cosa mi succederà?
A queste domande è difficilissimo trovare una risposta. Cosa c’è sotto? C’è una domanda che riguarda il presente, quindi “Sto facendo il lavoro giusto?”, e ci sono delle domande che riguardano il futuro, che noi riassumiamo con “Quali sono le mie opzioni di carriera?”, perché in base a queste io so se mi sto muovendo bene o male.
Ora, io parlo della maggior parte delle aziende, perché in realtà di aziende virtuose, o di contesti virtuosi in cui a queste domande si risponde, ce ne sono tante.
La questione del ruolo
Però in dieci anni di lavoro nella mia azienda di consulenza mi sono reso conto di un fatto: tra le tante aziende con cui abbiamo lavorato, quelle che si interessano all’agilità, anche come cultura, si contano veramente sulle dita di una mano e mezza, e significa che c’è ancora tanto spazio per lavorare. In dieci anni abbiamo visto di tutto e mi interessavo di questi temi già prima di contribuire a fondare l’azienda in cui lavoro attualmente.
Quindici anni fa venni inserito come Chief Operating Officer in un’azienda di marketing, e-commerce e servizi web digitali, dal forte cuore “american-oriented”, quindi COO, CTO, CFO… C’era tutta quella pantomima di ruoli all’americana, anche perché si investiva nelle start-up, avevamo una sede a San Francisco…
Io fui assunto come direttore operativo. Il ruolo era abbastanza chiaro, perché cosa fa un COO è chiaro: mi hanno chiesto di fare alcune attività, di occuparmi di qualcosa, in un quadro abbastanza chiaro.
Ho fatto il mio lavoro per tre mesi, quattro, e poi ho cominciato a vedere che qualcuno non veniva alle riunioni, qualcuno non seguiva esattamente le procedure che volevamo implementare; quindi abbiamo tentato di inserire pratiche Agile, Scrum, Kanban, team cross-funzionali. Ma mi rendevo conto che c’era molta maretta.
Dopo sei mesi ulteriori di lavoro, mi sono accorto che qualcosa ero riuscito a fare, ma sentivo degli smell, sentivo dei fastidi… Ma, soprattutto, mi rendevo conto che non ero riuscito a cambiare le metriche che mi erano state indicate come quelle da influenzare: più reddittività, più velocità.
Però avevamo l’Agile, avevamo il team cross-funzionale, avevamo il Product Owner, lo Scrum Master, eccetera.
Un ruolo definito dalle interazioni
Allora cosa feci? Mandai una survey a tutti, una sessantina di persone, facendo poi il giro uno a uno, chiedendo loro di essere brutalmente onesti: “Ti chiederò delle cose sul mio lavoro, su quello che sto facendo, per sapere se ti sto aiutando e se ti è chiaro il mio ruolo”.
Ho mandato questa survey: hanno risposto tutti, perché ero il COO, e mi hanno risposto le peggior cose… Qualcuno non sapeva cosa facessi, ma l’intenzione del survey era proprio quella. Ho chiesto se avessi avuto un impatto positivo sul lavoro delle persone e le risposte erano le più svariate: “Dipende…”, “E cosa dovrei fare di più?” e c’era veramente la qualunque tra quanto scritto in quei moduli.
Una delle domande era: ”Come descriveresti il mio ruolo a tua nonna, o a chi non lavora da noi?”. E anche qui sono risultato un soggetto, un capo, un Socrate aziendale, con una diversificazione della percezione del mio ruolo. Il modo in cui ero percepito io, in base alle persone, in base anche al tipo di interazione che avevo, era radicalmente diverso. Lì ho cominciato un percorso di ascolto, di avvicinamento, ho rinunciato a quell’ufficio, mi sono messo una scrivania nel corridoio e ho cominciato a lavorare insieme alle persone.
Una nuova percezione
Mi spostavo con la scrivania insieme alle persone che lavoravano, dando anche un po’ di fastidio perché la gente diceva: “Sei il COO… che cosa ci fai qua?”. Però così ho cominciato veramente a comprendere la natura del lavoro che facevano le persone, cosa che dal mio ufficio non riuscivo a vedere pienamente.
Ho cambiato il modo in cui interagivo con le persone, ho cambiato il modo in cui le persone hanno iniziato a interagire con me e, comprendendo la cultura aziendale, dopo un anno e mezzo, abbiamo rinunciato alle cariche CEO, CTO, COO etc. e così sono diventato un semplice “direttore generale”, ruolo che risultava più facile da spiegare all’interno e anche fuori.
Verso l’agilità organizzativa
È cambiato il mio ruolo, e questa cosa mi ha fatto capire tante dinamiche in quell’azienda.
A questo punto, si comincia a vedere chiaramente il rapporto tra individui e interazioni nella definizione del ruolo. E se vogliamo parlare di individui e interazioni, probabilmente il modo migliore per farlo è di prendere in esame alcuni casi, che verranno illustrati in questi due articoli, derivati da situazioni reali vissute in aziende reali nelle quali abbiamo lavorato. Naturalmente faremo delle astrazioni e delle generalizzazioni, ma il vissuto che c’è dietro è reale. È daila analisi della realtà che partono le nostre considerazioni.
“Archetipi” aziendali
Quelli che seguono potranno sembrare a qualcuno degli stereotipi, ma io li definirei invece tre “archetipi” di azienda.
Partiamo con quella che definirei “azienda piccola”, tipo quella di cui parlavo prima a proposito dei ruoli “americani” e della scrivania “itinerante” e in cui ho lavorato parecchi anni fa. In quei contesti, le persone si conoscono, interagiscono spesso, sanno chi sono, la catena della collaborazione è abbastanza corta.
Poi, sul mercato, ci sono delle aziende di dimensione nettamente maggiore che definirei “aziende grandi liquide” o “aziende grandi moderne”: sono quelle aziende con tante persone in però cui si è già iniziato a togliere un po’ di livelli gerarchici, ci sono già delle aree relativamente autonome per lavorare insieme, sono state modernizzate alcune pratiche.
Ma c’è anche un terzo “archetipo” di organizzazione: chiamiamole “aziende grandi solide”, dove l’aggettivo “solide” non è un giudizio di valore. Sono le aziende che hanno delle logiche gerarchiche ancora molto strutturate, però hanno inserito qualche pratica di lavoro un po’ più trasversale, quindi banalmente team cross–funzionali, oppure delle scelte di team. Però, in queste aziende grandi “solide” rmane la gerarchia funzionale, il funzionogramma, l’organigramma: tutti questi elementi rimangono anche come livelli di delega.
L’oggetto del nostro lavoro
Ma qual è il campo su cui operiamo in quanto consulenti/coach che si occupano di progettazione organizzativa? Si tratta anzitutto di lavorare su individui e interazioni, anche a prescindere dall’agilità. Questo è necessario e riguarda quasi la necessità di rispondere a quelle domande di prima, per creare i prerequisiti per cui possono funzionare le pratiche agili di collaborazione, ma può funzionare anche qualsiasi altra pratica moderna.
Quindi prendiamo in esame tre casi in cui si possono applicare le attività che racconterò di seguito. Cosa cambia? Non tanto il modo in cui svolgiamo le attività in questione, perché le abbiamo svolte esattamente nello stesso modo sia in aziende piccole che in aziende grandi, moderne o meno.
Però cambia il modo in cui queste attività possono essere prese in carico e cambia il modo in cui possono essere percepite dalle persone.
Employability come riferimento
Come driver del nostro ragionamento, useremo adesso il concetto di employability. Non lo traduciamo in italiano come “occupabilità”, perché questa parola, pur corretta in senso letterale, assume tutt’altro significato.
Nel caso dell’employability, dobbiamo considerare qual è il valore di una persona all’interno di un’organizzazione, qual è il suo contributo: questa definizione ci aiuta come bussola. E allora, in tal senso, l’employability è l’insieme di competenze, conoscenze, attitudini di una persona che le permette di scegliere un’occupazione che le dia soddisfazione e successo.
A questa definizione tutti i manager e tutti gli HR si esaltano e dicono: “Sì, la voglio!”. Però… attenzione: non stiamo parlando di un prodotto pronto all’uso e in vendita su qualche piattaforma. Dentro l’employability ci sono tanti elementi e lavorare per essa implica un percorso lungo. Partiamo banalmente da scegliere un’occupazione, capire quante possibilità di scelta ho dentro un’azienda e poi quanto queste possibilità possano portare alla soddisfazione e al successo.
Capire soddisfazione e successo
Quando parliamo di soddisfazione e successo, si tratta di qualcosa che accomuna sia le persone che l’azienda, però con caratteristiche diverse ovviamente. Ma nessuno, persone o azienda, vuol fare un’attività, un’impresa per non avere successo e soddisfazione.
Quali sono, se usiamo questo come bussola, i modi per cui un dipendente, un collaboratore, un developer, un product owner, qualsiasi persona all’interno dell’organizzazione possa provare soddisfazione e successo? Cosa ci serve per provare soddisfazione e successo dentro l’azienda? Essere liberi? Avere una sfera di autonomia? Avere un impatto? Avere un senso di scopo? Fare anche le cose che piacciono? Sentirsi al sicuro? Qual è la risposta giusta dentro un’azienda specifica? Chiediamocelo ma, soprattutto, chiediamolo direttamente alle persone interessate.
Prendiamo le persone, mettiamole in una stanza — lasciamo stare le survey — e facciamole interagire; chiediamo direttamente a loro quali sono state le caratteristiche della loro esperienza lavorativa in cui hanno provato soddisfazione e successo.
E una volta che si siano individuati i momenti lavorativi significativi, mettiamoli in una scala: qui tanta soddisfazione, qui poca, quindi successo, fallimento, soddisfazione, frustrazione, paura… Elenchiamo qualsiasi cosa che sia legata al negativo o al positivo. Una volta che abbiamo raccolto questo materiale — e può essere fatto con un campione oppure con le persone dell’azienda che hanno uno stesso ruolo in particolare perché lo user journey di un ruolo è diverso da quello di un altro —clusterizziamolo in episodi lavorativi.
Si possono identificare una manciata di episodi lavorativi dentro la vita di una persona, di un ruolo, dentro un’azienda, che possono essere messi in questa matrice e hanno delle caratteristiche. Li possiamo descrivere in maniera narrativa.
Conclusioni
E di descrivere in maniera, per così dire, “narrativa” gli episodi lavorativi che costellano la vita di una persona e il suo percorso dentro un’azienda, ci occuperemo nel prossimo articolo, che concluderà il discorso sull’importanza degli individui e delle loro interazioni all’interno delle diverse tipologie di aziende.
Di formazione umanistica e filosofo, lavora e si diverte con il digitale dal 1999. Nel corso degli anni, ha rivestito ruoli di web designer, motion designer, software developer e project manager. Ha contribuito a diffondere in Italia la cultura dell’Information Architecture e della User Experience. Dopo un’esperienza di General Management e in alcune startup come investitore e advisor, ora è CEO e co-fondatore di Agile Reloaded e di Nobilita. Svolge attività di consulenza e coaching in organizzazioni che hanno bisogno di migliorare qualità, performance e sostenibilità del ritmo lavorativo, con un’attenzione specifica alla valorizzazione delle persone e delle performance.