Si è svolta nei giorni scorsi Better Software, la conferenza italiana che si occupa di sviluppo del software sotto diversi punti di vista: gli argomenti trattati spaziano dalla raccolta delle specifiche al design, dal project management allo sviluppo, dal licensing al marketing. Una conferenza eclettica ricca di argomenti presentati dai maggiori esperti nazionali di software per far nascere idee e trovare nuove ispirazioni.
A pochi giorni dalla conclusione di Better Software 2010 [1], che si è svolto mercoledì 5 e giovedì 6 maggio a Firenze, riportiamo sulle pagine di MokaByte un resoconto “parziale” dell’evento. Parziale poiche’ lo sviluppo della conferenza su tre track contemporanee ci ha impedito di seguire tutto. Ciò nonostante, dai talk cui abbiamo partecipato e dalle discussioni con alcuni dei presenti, ci siamo potuti comunque fare una idea di quelle che, nel complesso, sono state le tematiche principali di questo evento, ben organizzato da Develer [2] e con relatori di tutto rispetto.
Che cosa è Better Software?
Better Software rientra nel novero delle “conferenze” sul mondo IT rivolte a sviluppatori, manager e professionisti del settore. A differenza di altre altrettanto valide iniziative, però, Better Software si connota per alcuni aspetti peculiari. Anzitutto l’eclettismo: i temi trattati non sono rigidamente incanalati in un ristretto orizzonte, ma spaziano in maniera variegata su diversi ambiti di interesse, affrontando il discorso software in maniera multidisciplinare e da svariati punti di vista. Poi la tipologia dei partecipanti, sia come relatori che come pubblico: Better Software non è la tipica iniziativa “corporate” rivolta a un mondo esclusivamente enterprise, alle grandi aziende che devono operare in ambiti abbastanza standardizzati (tipicamente, in campo finanziario, bancario, di grandi amministrazioni etc.), ne’ tantomeno è un piacevole ritrovo per geek alla ricerca dell’ultima novità tecnologica; è invece qualcosa di più variegato e, forse anche per questo, stimolante. Relatori e pubblico di Better Software sono contraddistinti da una generale informalità, da un buon tasso di creatività, da un’età media relativamente bassa… e da una quasi esclusività di uso di computer e altri dispositivi marcati Apple 🙂
Di fronte a iniziative di questo tipo, ci si chiede sempre se abbia davvero senso concentrare in un solo posto fisicamente le persone, in un’epoca di connettività a distanza continua e pervasiva… La risposta, per quanto banale e decisamente conservatrice, è che lo scambio di idee faccia a faccia continua a mantenere un suo valore: è vero che è possibile comunque comunicare a distanza, è vero che è possibile ricercarsi le informazioni cui si è interessati, ma è altrettanto vero che una due giorni come questa può dare alcuni risultati in termini di contatti e confronti, nonche’ di “ispirazione” che magari giunge proprio dal relatore ascoltato quasi “per caso”, con le cui idee magari non ci saremmo mai confrontati.
Qualche critica va comunque fatta alla struttura della conference: da un lato tre eventi in contemporanea (quello “principale” nell’ampio auditorium, quelli “secondari” in due sale più piccole) rappresentano un’offerta molto ampia, in grado di soddisfare tutti i palati. D’altro canto, in questo modo si rischia di sovrapporre tra loro alcuni talk ugualmente interessanti, costringendo i presenti a scelte “dolorose” riguardo a quale intervento perdersi. I relatori presenti alla conference e non citati in questo articolo vorranno quindi “perdonarci”: magari ci siamo persi proprio l’intervento più interessante…
Inoltre, sebbene l’attenzione per un determinato talk sia difficile da prevedere a priori, è successo in diverse occasioni che l’auditorium risultasse fin troppo ampio per certi interventi, mentre le aule “secondarie” (Workshop e Interactivity) finissero per essere sovraffollate. Sono critiche cui gli organizzatori hanno sicuramente prestato attenzione e crediamo che tali aspetti saranno ottimizzati nelle prossime edizioni. Ci sembra invece buona la formula su due giorni, misura “intermedia” che ben si adatta a molte esigenze.
In ogni caso, sul sito di Better Software [1] saranno resi disponibili nei prossimi mesi i video degli interventi… non sarà esattamente come essere stati presenti di persona, ma servirà magari proprio a chi era alla conferenza per “recuperare” il talk perso per concomitanza con altri interventi.
Tanti i temi trattati e da più punti di vista. Il nostro “parziale” resoconto, però, individua quattro aree tematiche (in senso molto ampio) in cui far ricadere, magari con qualche forzatura, la gran parte degli interventi (e perlomeno quelli da noi seguiti). Le parole chiave di questa edizione ci sono sembrate Social, Mobile, Open, Agile. È chiaro che molti di questi temi si intersecano, anche in maniera pesante. Il lettore quindi giustificherà la nostra suddivisione, pensata soprattutto per necessità di esposizione e di sintesi.
Come c’era da aspettarsi, gli aspetti “social” hanno avuto un ruolo importante. Vogliamo far ricadere sotto questa etichetta non solo quegli interventi strettamente legati ai social media e alle tecnologie sottostanti, ma anche, in senso più ampio, i numerosi interventi relativi alla “comunicazione”, al marketing digitale, ai risvolti legali, troppo spesso sottovalutati, dei processi di produzione del software e dei modelli di business che si possono adottare.
La diffusione pervasiva di dispositivi mobili giustifica l’etichetta di “mobile” in cui collocare diversi interventi. La maggiore disponibilità di smart phone e affini, le sfide tecnologiche imposte dalle diverse piattaforme, i limiti tecnici e le potenzialità limitate di alcuni device fanno della programmazione “mobile” una delle frontiere del presente e dell’immediato futuro, in cui, tra l’altro, certe lezioni del passato prossimo potrebbero tornare molto utili.
“Open” va inteso in maniera ampia, poiche’ vogliamo applicarla non solo al concetto di software open source o di standard open format. In “open” vogliamo far rientrare anche un discorso più generale sugli standard e sul desiderio, da più parti espresso, di una maggiore “apertura”, per esempio, dei sistemi di progettazione delle interfacce utente, o dei processi di adozione di formati o sistemi “open” da parte di aziende e amministrazioni.
Le tematiche “agile”, per quanto riguarda processi di sviluppo del software e gestione del progetto, hanno dominato la seconda giornata, con interventi tanto efficaci quanto divertenti: il pubblico ha decisamente apprezzato le riflessioni sulla difficile arte di scrivere software, spesso raccontate con piglio “attoriale” dai protagonisti… ma ne parliamo dopo.
Di seguito, suddivisi per le “arbitrarie” categorie da noi appena individuate, riportiamo la sintesi di alcuni talk. In molti casi, sui siti degli autori citati, sono presenti le slide delle presentazioni, cui rimandiamo il lettore che sia particolarmente interessato alla tematica trattata. Ricordiamo inoltre che sul sito di Better Software sono in molti casi già presenti i resoconti e le slide degli interventi, e che nei prossimi mesi saranno caricati i video, spesso integrali, dei vari talk.
Su queste pagine, più che il resoconto dettagliato, ci interessa proporre al lettore solo alcune considerazioni che nascono da tali interventi e che si inseriscono in una più ampia riflessione.
Uno degli interventi forse più attesi era quello sul caso BlogBabel [3]. Ludovico Magnocavallo [4], nel suo intervento Come innervosire i blogger e vivere felici ripercorre tutto il percorso che l’ha portato a diventare uno degli italiani più bersagliati in rete. Svelando e discutendo gli algoritmi che permettevano di classificare i blog, e di decretarne successo o fallimento, BlogBabel era diventato uno dei siti più visitati in Italia, e da lì si erano create discussioni ma anche scontri piuttosto accaniti. In conclusione, l’autore ha voluto però mettere in luce l’enorme sforzo che c’è stato dietro e che gli ha consentito di raggiungere una notevole visibilità, fecondi contatti per il lavoro e, in definitiva, quella che lui chiama “crescita personale”, che passa anche per una serie di errori che oggi non ripeterebbe. Di certo, l’intervento è stato apprezzato soprattutto da coloro che del “caso” avevano già una discreta conoscenza, fornendo comunque anche degli spunti di riflessione per chi aveva seguito la vicenda in maniera marginale.
Più tecnico e rivolto allo sviluppo di social media è stato il talk di Alberto Mucignat [5] riguardante Social Design: progettare applicazioni che funzionano [6]. Forte è stato il richiamo, mai abbastanza ascoltato, alla progettazione di applicazioni che funzionano e alla necessità di una ben chiara progettualità ancor più per le applicazioni di “intranet relazionale” così importanti per il concetto di Enterprise 2.0. Attraverso le esperienze di Mucignat (che in passato ha, tra l’altro, contribuito a inventare Studenti.it) sono stati elencati e brevemente illustrati i capisaldi di un design sensato per le applicazioni sociali. Ha colpito in particolare l’analisi dei task sociali, e l’affermazione che è molto importante riuscire a definire l’obiettivo della community di riferimento grazie a una frase di senso compiuto (si pensi a ” Scopri cosa sta succedendo proprio ora, in qualsiasi parte del mondo” di Twitter o a “Broadcast yourself” di YouTube). Molto utile poi il richiamo all’importanza di intersecare l’obiettivo stabilito con le possibili scelte dell’utente tramite l’utilizzo degli studi sugli utenti tipo. Sicuramente il talk, di buon livello, è risultato utile per una vasta platea di sviluppatori, architetti ed esperti di tecnologia, che magari sono meno addentro alle tematiche di design e di progettazione delle interfacce da un punto di vista dell’utente.
Con uno scopo analogo, seppure con taglio diverso, si sviluppa l’incontro con Pietro Polsinelli [7], Una home page memorabile. Polsinelli, tra i fondatori di Open Lab [8] che sviluppa tra l’altro TeamWork, il programma di collaborazione e gestione di progetto di cui ci siamo in passato occupati anche su MokaByte, è di formazione uno svilppatore Java. Ciò nonostante, il suo intervento è tutto volto a suscitare riflessioni e a fornire consigli operativi riguardanti la comunicazione d’impresa. Il talk parte da un dato di fatto: molte startup di piccole dimensioni, gestite magari da sviluppatori capaci che hanno avuto ottime idee, si scontrano con l’incapacità di realizzare una comunicazione efficace e non hanno i mezzi per ricorrere a campagne di promozione strutturate e costose. I nuovi media consentono di “fare in casa” anche la comunicazione (“homemade copywriting” la chiama Polsinelli) ma ovviamente ciò presuppone da parte degli sviluppatori l’apprendimento di tecniche di scrittura efficace. Come in altri interventi, anche questo ha messo in luce la sempre maggiore importanza di skills non strettamente tecnologiche nelle attività di progettazione e sviluppo del software, specie per quelle piccole aziende (e sono la maggior parte) che a fronte di buone idee e buone capacità di realizzazione, non possono però permettersi campagne promozionali dedicate ed esternalizzate, anche perche’ il copywriter professionista non ha magari le nozioni tecniche necessarie per comprendere appieno il tipo di prodotto molto particolare.
Figura 1 – Roberto Venturini e il “wow factor”: un video degli AC/DC realizzato tramite Excel!
Rimanendo nel campo della comunicazione efficace e degli aspetti sociali, uno dei talk decisamente più interessanti della prima giornata è stato quello di Roberto Venturini [9], pioniere ed esponente di primo piano del Digital Marketing in Italia, intitolato con una certa ironia La comunicazione non è più quella di una volta. Prima ancora che il consueto ruolo di creatore e studioso di campagne di comunicazione, Venturini ha interpretato molto bene quello di “distruttore di miti”. Davanti a una platea composta in gran parte di persone attente all’ultima tendenza tecnologica, Venturini afferma sicuro che “La TV non è morta”, “Non tutti sono geek”, “Non tutti sono online”, “Facebook ha un po’ rimescolato le carte in tavola, ma non più di un 25% di italiani usa Internet in maniera estensiva”. In queste considerazioni, troppo spesso sottovalutate proprio da chi si occupa a pieno titolo di tecnologia, stanno le premesse per una comunicazione digitale efficace. La cosa bella degli ultimi tempi, dice tra l’altro Venturini, è che su molte tematiche ormai ci sono tanti utenti che ne sanno più del pubblicitario. Non si riesce più a “intortare” l’utente declamando doti inesistenti di un prodotto o semplicemente associando un prodotto a qualcosa di stimolante. È una strategia vecchia, che può funzionare per certi ambiti, ma che di sicuro non funziona per quella fetta minoritaria ma significativa di utenti più attenti che, grazie alla dimensione sociale dei media, possono immediatamente criticare, correggere, rettificare, smentire etc. Questo costringe chi deve fare comunicazione a trovare nuove strade. “Siamo”, dice Venturini, “condannati a sperimentare”. In pratica, non funziona più il “business as usual”. Se questo è positivo da un lato, diventa problematico da un altro, poiche’ il consumatore, sempre più “drogato” di novità, finisce per pretendere “dosi” di novità sempre più forti e più ravvicinate, che non necessariamente rappresentano il percorso migliore per una comunicazione sostenibile, almeno nel lungo termine. In pratica, l’effetto di stupore, il “wow factor” è buono se usato bene, ma può essere un’arma a doppio taglio, con i suoi pericoli. Rimane difficile, come nel caso di altri relatori, riportare tutte le sfumature e gli elementi della presentazione (non è neanche nello scopo di questo articolo, visto che, come detto, i video saranno nei prossimi mesi resi disponibili sul sito di Better Software): di certo l’intervento di Roberto Venturini è stato molto significativo, forse proprio per coloro che sono meno addentro a certe tematiche di comunicazione.
Sebbene apparentemente lontano dagli aspetti strettamente tecnologici dello sviluppo, l’intervento di Elvira Berlingieri [10] sull’Analisi legale dei nuovi modelli di business si è rivelato estremamente centrato e ha suscitato svariate riflessioni. Avremmo potuto benissimo collocarlo in ambito “social”, ma gli esempi esposti dalla Berlingieri sono molto legati anche al mondo dei dispositivi mobili. In breve, partendo dall’analisi del concetto di proprietà intellettuale e dalle differenze tra tutele di tali aspetti nel diritto angloamericano e in quello che vige invece nella gran parte dell’Europa, la relatrice ha illustrato come sempre di più negli ultimi anni si siano affermati degli standard “de facto”, specie per i dispositivi mobili, legati anche al potere trainante delle community di sviluppatori e di utenti. Per quanto agli sviluppatori l’aspetto legale possa sembrare astruso e poco importante rispetto alle tecnologie e alle piattaforme, in realtà nel mondo mobile a influenzare il modello di business è proprio il modo in cui viene effettuata la distribuzione, il canale in cui passa l’applicazione e a cui si applicano precise regole legali e particolari strategie di gestione della proprietà intellettuale. L’autrice di “Legge 2.0” ha poi presentato tre esempi di distribuzione molto diversi fra loro: il modello AppleStore che controlla in maniera più stretta tutte le applicazioni, il modello Android che ha un controllo meno stringente e il modello Arduino che applica una apertura massima (all’hardware), ma che tutela fortemente l’uso del marchio. Spiegando come, ad esempio, non sia possibile da un punto di vista legale a uno sviluppatore di app per iPhone creare il proprio prodotto usando l’SDK di Apple e poi riproprre la medesima cosa per un’altra piattaforma, l’invito rivolto alla platea è stato di verificare con scrupolo il modo in cui il modello di business adottato dalla propria piccola azienda possa integrarsi meglio in qualcuno dei modelli legali di distribuzione dei prodotti, tra quelli presi in esame. Sono argomenti di sicuro interesse, specie nell’ottica dell’enorme sviluppo del mobile previsto per i prossimi anni, che intendiamo trattare in maniera più approfondita sulle pagine di MokaByte.
Sempre di modelli di business per le applicazioni mobili (e non solo) ha parlato Antonio Tomarchio di Simply [11], nel suo Social Apps e Mobile Apps: la rivoluzione 2.0. Con alcuni casi di esempio, è stato illustrato il rapporto tra advertising e social media. In particolare, Tomarchio ha voluto ricordare come, almeno nel panorama attuale, “pubblicità online = Internet gratis”. Un certo interesse hanno destato, almeno in molti dei presenti, i “conti in tasca” fatti ad alcune applicazioni apparentemente “stupide”, come il famoso “Biscotto della fortuna” di Facebook, che grazie alla massa critica di utenti e alla pubblicità collegata a tale applicazione, si è rivelato per il suo creatore una fonte di reddito considerevole (seppure con durata dell’entrata limitata nel tempo. In sostanza, l’intervento ha puntato a mostrare come certe revenue siano in effetti possibili grazie a piattaforme di social gaming, purche’ tutto il processo sia gestito nel modo migliore, secondo precisi modelli di business.
Tra le tecnologie adatte anche al mondo mobile, si è parlato di piattaforma Flash, anche se le recenti affermazioni di Apple sembrano farne il bersaglio del momento, e se sono da molti considerate come destinate all’estinzione. Luca Mezzalira di Mart3 [12], nella sua Business?! Where?! Everywhere with Flash platform, sembra proprio non pensarla così e incentra il suo intervento anzitutto sulla rimozione dei pregiudizi che molti sviluppatori hanno nei confronti delle tecnologie Flash. Non servono solo a far siti animati, o banner, ma la Piattaforma Flash, intesa nei suoi numerosi componenti (Catalyst, Flex Builder, FX, programma Flash vero e proprio, Flash Player anche in Mobile Edition, e Adobe Integrated Runtime AIR) va inserita in un processo di sviluppo basato sul modello MVC in cui può “vestire” bene una base di dati, senza dimenticare che ActionScript è un linguaggio molto potente e solido. Oltre che dalle numerose e valide argomentazioni del relatore, la platea di questo intervento, forse già ben predisposta verso la piattaforma di Adobe, sembra convinta da alcuni esempi di porting “semplificato” delle applicazioni verso i differenti dispositivi, desktop e mobili (ma non iPhone!) resi possibili da AIR 2.0 e Flash 11, e da alcuni esempi di dispositivi embedded di altissima fascia che adottano Flash (per esempio i cruscotti di alcune automobili di alta fascia).
Flash diventa protagonista anche dell’intervento di Salvatore Laisa [13], Augmented Reality e il web. Vogliamo inserire la realtà aumentata nel discorso “mobile” proprio perche’ ci sembra che tale tecnologia, se e quando raggiungerà una maturità tecnologica e una diffusione di massa, ben si presti a un utilizzo non “stanziale” ma su dispositivi mobili. A una sala estremamente affollata (a dimostrazione dell’interesse che questa tecnologia riscontra presso gli appassionati, nonostante sia ben lontana dalla sua maturità) Laisa ha presentato il concetto di Augmented Reality, ne ha messo in luce le similitudini e le differenze con altre esperienze, ha illustrato le risorse hardware e software (tra cui Flash) già disponibili, nonche’ le possibilità future teoriche (specie se in relazione con tecnologie di geolocalizzazione).
Partiamo da un intervento molto “classico” in cui open è chiaramente riferito a software open source e a standard open format nel senso che tutti conosciamo. L’approccio molto pragmatico di Alessandro Nadalin [14], Sviluppare open source: un modello sostenibile? presenta una serie di casi di esempio di positiva adozione di sistemi open source da parte delle aziende. Quel professional open source, di cui parliamo spesso anche sulle pagine di MokaByte, possiede ormai alcuni sperimentati modelli di business che si sono dimostrati vantaggiosi da un punto di vista tecnologico ed economico. La presentazione in questione ha avuto il merito di fare il punto su tale questione, sinteticamente e con casi di esempio interessanti.
Figura 2 – Alessandro Nadalin: l’open source è un affare serio…
Un grosso sucesso di pubblico, tanto che purtroppo parecchie persone non sono entrate nell’aula, ha riscontrato HTML5, CSS3, e gli altri: dove stanno andando gli standard web, talk tenuto da Maurizio Boscarol [15]. La qualità dell’intervento sta nella linearità dell’analisi dello sviluppo dei linguaggi web oriented negli ultimi venti anni, nella sintesi con cui sono state presentate le nuove caratteristiche di HTML5 e CSS3 e nelle riflessioni finali, legate maggiormente agli scenari futuri e agli interessi, anche economici, in gioco. Non possiamo ovviamente riportare dettagliatamente tutto quanto è stato detto da Boscarol ma cerchiamo di ripercorre in maniera estramamente sintetica il suo talk, mettendo in luce solamente certi elementi.
L’analisi dello sviluppo dei linguaggi per il web parte dalla considerazione che dopo la creazione e l’evoluzione dell’HTML, poi negli ultimi dieci anni era stato proposto, proprio dal W3C, il linguaggio XML come futuro del web. Non proprio all’improvviso, ma con una mossa sicuramente “a sorpresa”, ci viene detto nel 2009 che XHTML 2.0 non nascerà mai e che si passa a HTML5. Questo di sicuro potrebbe disorientare molti sviluppatori: in pratica lo spostamento definitivo su XHTML non avverrà.
La presentazione delle novità di HTML5 è sintetica ma esaustiva: nuove caratteristiche (policy per la gestione degli errori, definitiva eliminazione di certi tag deprecati, serie di tag con valore semantico preciso, semplificazione della scrittura), nuove funzionalità (drag’n’drop, canvas manovrabili in senso procedurale, form con particolari tipi e validazioni per semplificare l’inserimento di dati senza tanto JavaScript, audio e video con l’abbandono del Flash player e alcune incertezze per il supporto di certi codec piuttosto che di altri, geolocalizzazione, offline caching con la possibilità per le web application di funzionare tramite un file manifest anche quando si è staccati dalla rete, etc.). I CSS3 presenteranno delle novità “di contorno” tra cui novità tipografiche e visuali (effetti simili a quelli dei vari sistemi operativi) nonche’ le animazioni.
Le considerazioni finali sono sostanzialmente le seguenti: a differenza di XML che è un linguaggio per la descrizione di documenti, HTML5+CSS3 punta soprattutto alla realizzazione di applicazioni interattive, magari proprio su dispositivi mobili. In tutto questo, appare chiaro come grandi attori del panorama IT hanno tutto l’interesse a spingere in questo senso: Apple e Google in primis (anche a rischio di mettere in crisi il suo GWT). La considerazione molto acuta di Boscarol è che mentre un tempo le grandi corporation si facevano la guerra sulla base di software chiuso e formati proprietari, esse sono oggi in grado di giocare le loro partite e sostenere i loro modelli di business nell’ambito degli standard web aperti e possono suggerire un brusco cambio di direzione al W3C che da sempre era stato riconosciuto come organismo internazionale indipendente…
Figura 3 – Fervono i contatti dopo l’affollato intervento di Maurizio Boscarol.
Facciamo ricadere nella categoria “open” anche l’intervento di Paolo Ciuccarelli [16], Oltre il cruscotto: (ri)costruire la visione d’insieme per decidere meglio, poiche’ il suo talk parte dalla domanda “Is Open Data really open?”. Sebbene si occupi di interfacce visuali, nel suo intervento il relatore ha più volte richiamato all’attenzione per gli “standard” condivisi del design per la comunicazione visuale, che spesso vengono bellamente trascurati, quando non siano del tutto ignorati, pregiudicando così la comprensione e i processi decisionali. Ciuccarelli parte dalla constatazione che il sovraccarico di informazioni non implica l’abbondanza di conoscenza ne’ tantomeno porta a una ricchezza del sapere. In tal senso i dati “aperti”, anche quelli messi sempre più a disposizione da agenzie governative di molti stati, non significano automaticamente maggiore conoscenza. Come ci insegnano le teorie della complessità, affinche’ i dati disponibili possano trasformarsi in conoscenza, conta la visione con cui si affronta il problema. Tra la necessità di ridurre la complessità e l’attenzione di non semplificare eccessivamente una realtà che per sua natura è complessa, si gioca la possibilità di organizzare i dati in interfacce visuali che da un lato consentano di esaminare i singoli aspetti del dominio affrontato, dall’altro non facciano perdere di vista la visione d’insieme (the big picture). In tal senso, Ciuccarelli critica il paradigma del “cruscotto”, della “dashboard” che, seppure ottimo in certi casi, è stato applicato con il suo insieme di tachimetri e contakilometri a tutto e al contrario di tutto: il potere della metafora non va sminuito, ma neanche applicato in maniera cialtronesca a domini applicativi con cui quella metafora non ha nulla a che vedere. L’intervento si è chiuso con la proposta di metafore di visualizzazione meno comuni ma più adatte a rendere graficamente determinati fenomeni: ad esempio, il diagramma di Sankey per modellare i flussi. Un intervento di alto livello, che fa sicuramente riflettere sul fatto di come spesso si rendano graficamente i dati utilizzando visualizzazioni ormai abituali (magari per pigrizia, perche’ esistono già componenti sviluppati in tal senso) ma che non sono adatte al tipo di dati e di processo che intendono visualizzare.
Figura 4 – La realtà è complessa: come è possibile visualizzarla nel modo migliore?
Concentrati nella seconda giornata, gli interventi relativi alle metodologie agili hanno riscosso grande successo presso il pubblico di Better Software: evidentemente le tematiche con cui quotidianamente gli sviluppatori devono confrontarsi hanno lasciato il segno. In tal senso, è stato accolto con entusiasmo l’intervento di Giovanni Intini [17], Agile tricks: keep the morale of your team high, molto lineare e incentrato su un caso di esempio divertente: la realizzazione di una “lavagna senziente”, l’uso di schermi che mostrano in maniera ben poco convenzionale come si stia svolgendo la continuous integration e il testing, e riflettono una competizione molto amichevole sulla qualità del proprio codice. Tutto questo allo scopo di mantenere sempre elevato il “morale” di chi lavora a un progetto. Un talk capace di entusiasmare i più geek tra gli sviluppatori presenti e che ha avuto il pregio di porsi come raccolta di “trucchi” più che come presentazione di una metodologia strutturata (che comunque, dietro il processo, esiste).
Molto divertente l’approccio di Francesco Cirillo [18], l’esperto di metodologie agili e di XP, inventore della “Tecnica del pomodoro” [19]. Non è possibile riportare in maniera diffusa tutto il contenuto del suo Dinamiche di team di sviluppo, ma la cosa che ha colpito di più è stata l’atmosfera in sala. Nonostante la straordinaria capacità comunicativa di Cirillo, in grado molte volte di strappare sonore risate all’auditorium, a un certo punto la platea si è fatta molto seria, quando le considerazione sulle dinamiche lavorative e psicologiche snocciolate dal mentor e coach XP/Agile hanno evidenziato con chirurgica precisione certi problemi e certe difficoltà che probabilmente sono note a chiunque abbia sviluppato software. Evidentemente Cirillo coglie nel segno quando dice innanzitutto tutte le cose da non fare per trarre il massimo dal teamworking, ricordando a tutti che lo scopo del lavorare in squadra sullo sviluppo del software deve appunto portare a produrre software di qualità sforzandosi di meno, senza esaurirsi, e non a improbabili sedute di psicoanalisi o a serate a “pizza e birra” che non sono ne’ di lavoro produttivo, ne’ tantomeno di amicizia. Il valore dell’automotivazione, i vantaggi dei diversi modelli organizzativi dei team di sviluppo e i loro rischi, e anche molto altro, hanno sicuramente rappresentato un momento di valida e concreta riflessione per gran parte dei presenti.
Figura 5 – Francesco Cirillo e le dinamiche di team working: uno degli interventi più divertenti e al contempo più seri.
Di tono diverso,quasi filosofico ma molto calato nella realtà pratica, l’intervento di Alberto Brandolini [20], intitolato Fare software… e alcune cose che comporta. Sul blog di Alberto [21] potete già trovare le slide della sua interessante presentazione. Attraverso esempi e metafore e sulla base di dati acquisiti, Brandolini porta alla platea alcune considerazioni che derivano dall’esperienza di sviluppare software. In particolare colpisce il richiamo al fatto che il processo di sviluppo è una realtà in continuo mutamento e che una delle difficoltà maggiori dei team sta proprio nell’individuare con prontezza tali mutamenti e nell’adattarvisi in maniera proficua. Suggestiva poi la considerazione secondo cui il software è solo uno dei prodotti del processo di sviluppo e che l’apprendimento da parte del team è un positivo “prodotto” del processo, al punto di poter costruire una metafora del sistema software per cui esso è un prodotto secondario del processo di apprendimento: si impara a fare la cosa giusta nel modo giusto e in tale ottica diventa fondamentale il feedback. Entusiamo, obiettivi, aspettative, condivisione sincrona di informazioni: il rapporto tra “fare” e “imparare” viene preso a modello di un processo di sviluppo virtuoso e remunerativo sotto il piano della produttività e della soddisfazione di tutti gli attori coinvolti.
Figura 6 – Costruire software comporta molti aspetti collaterali oltre a quello di produrre “programmi”: Alberto Brandolini durante la sua presentazione.
A dimostrare ulterioremente quanto le metodologie agili possano essere anche creative, Fabio Castronuovo [22], presenta il suo Management agile e tecniche di improvvisazione jazz, in cui espone il parallelismo tra le caratteristiche dell’improvvisazione in ambito musicale e gestione di progetto con metodologie agili. Affermando che “Miles Davis è stato il più grande project manager agile della storia” Castronuovo vuole provocare nella platea una riflessione. E ci riesce presentando una serie di considerazioni che si trasferiscono bene dal mondo del Jazz a quello del project management. In particolare i concetti di “libertà entro un certo schema”, “conoscenza del passato, inteso come esperienze già vissute da se’ o da altri”, “variazioni sul tema” che sono alla base dell’improvvisazione, ben si applicano al mondo della produzione del software. “Improvvisazione” è diverso da “Caos” e proprio nella presenza di una struttura in cui muoversi, ma che non è in alcun modo rigida, sta la forza delle metodologie agili. Un intervento suggestivo, “obliquo”, ma decisamente interessante.
Figura 7 – Chi si aspettava che “A kind of blue” potesse avere a che fare con le metodologie agili? Eppure Fabio Castronuovo ce ne ha parlato.
Vista la collocazione fiorentina della conference, partiamo dalle parole di un toscano molto famoso: Leonardo da Vinci affermava “chi poco pensa molto erra”. Incontri come questo hanno anzitutto il senso di “costringere” a pensare gli sviluppatori e in genere tutte le figure che ruotano intorno alla produzione di software ai diversi livelli, invitandoli a riflettere sul senso di ciò che stanno facendo e sul modo in cui lo fanno. Crediamo che una iniziativa come Better Software, proprio per il suo contenuto eclettico, ci sia riuscita: spingere lo sviluppatore a confrontarsi con l’esperto di comunicazione digitale o il creativo a focalizzarsi sulle metodologie di sviluppo, o il manager corporate a valutare la dinamicità di una start-up, tanto per fare esempi plausibili, è sicuramente una via possibile a un approccio obliquo e olistico alla realizzazione di applicazioni migliori. In due parole, Better Software.
[1] Better Software 2010, il programma
[2] Develer
[3] BlogBabel
[4] Il sito di Ludovico Magnocavallo
[5] Doralab
[6] La presentazione sul sito di Alberto Mucignat
[7] La pagina di Pietro Polsinelli
[8] Open Lab
[9] Il blog di Roberto Venturini, sul Digital Marketing
[10] Il blog di Elvira Berlingieri, sulle tematiche legali del mondo digitale
[11] Simply, Internet Advertising
[12] Mart3, The Flash Platform Company
[13] MoebiusMania
[14] Il sito di Alessandro Nadalin
[15] Il sito di Maurizio Boscarol
[16] Density Design
[17] Mikamai
[18] Metodi Agili
[19] Francesco Cirillo e la sua tecnica del pomodoro
[20] Avanscoperta
[21] Il blog di Alberto Brandolini
[22] NeoNetwork