Introduzione
In una precedente serie di articoli [1] abbiamo affrontato il tema della trasformazione di una idea in un prodotto, quello che a volte in termini agili viene definito “From vision to backlog”. Si tratta di una serie di iniziative indispensabili in fase di inception di progetto, utili per consentire al team Scrum o Kanban di iniziare l’implementazione degli elementi del backlog.
Avevamo parlato di Vision (e di Vision Board), di definizione del prodotto (tramite la Product Canvas) e del modello di business necessario per capitalizzare gli sforzi necessari per realizzare il prodotto. In questa sede torneremo a parlare di Product Ownership concentrando il nostro lavoro sugli aspetti strategici legati alla creazione di un prodotto.
Quello che affronteremo in questa serie può essere visto come un approfondimento sugli strumenti del mestiere del Product Owner: vorremmo esaminare quindi degli strumenti che gli consentano di fare molto di più di una semplice elencazione degli elementi di un Product Backlog; vorremmo provare a stimolare quelle competenze che fanno del PO una figura più vicina all’imprenditore che al Project Manager.
Vision
L’obiettivo di una visione di prodotto è ispirare nella sua realizzazione, dare la rotta, indicare che tipo di bisogni il prodotto cerca di risolvere, a quale tipologia di utente ci si vuole rivolgere, il tipo di impatto, vale a dire il cambio di comportamento che il prodotto introduce nell’utente.
Senza entrare nei dettagli implementativi, una vision dovrebbe quindi catturare quattro aspetti fondamentali: il gruppo target di utenti, i loro bisogni di business, le proprietà del prodotto e la proposta del prodotto in termini di valore per l’utente.
Gruppo bersaglio
Il target group indica a chi è rivolto il prodotto tramite l’elencazione delle categorie di utilizzatori finali del prodotto cui si sta pensando. Non è necessario essere troppo dettagliati, in genere è sufficiente identificare le macro-categorie.
Necessità degli utenti
Gli user needs elencano i bisogni di business, ad alto livello, dei macro utenti o quali problemi va a risolvere il prodotto.
Proprietà del prodotto
A volte può essere utile specificare ad alto livello le proprietà del prodotto, ossia le caratteristiche principali e di maggior rilievo del prodotto. È una applicazione web? Mobile? Prevede la sincronizzazione in tempo reale con il cloud?
Valore del prodotto
Infine la value proposition sintetizza le aspettative di business che l’azienda pone nel prodotto che sta realizzando: esempi validi possono essere l’incremento dei ricavi, il risparmio di costi di esercizio, il mantenimento della quota di mercato, l’aumento del numero di utenti — se per esempio il prodotto è abilitante ad altre forme di revenue, come nel caso del Kindle o di iTunes — o anche il miglioramento della soddisfazione dei propri clienti.
La vision statement e la vision board
Spesso tutte queste informazioni sono poi riassunte nella cosiddetta vision statement, una frase che tutte le persone coinvolte nel progetto dovrebbero conoscere e fare propria e che sarà il faro guida del progetto.
Operativamente, una vision può essere compilata grazie all’impiego della vision board, strumento sintetico ed efficace per raccogliere tutti gli aspetti elencati poco sopra.
Business model
La vision da sola non basta per creare un prodotto: affinché questa sia realizzabile, occorre legarla ad un modello di business. Una possibilità in tal senso è data dallo strumento Lean Canvas [2] ideato da Ash Maurya in “Running Lean” [3] e sviluppato a partire dal Business Model Canvas di Alexander Osterwalder.
Il Lean Canvas è uno strumento utilizzato principalmente per creare velocemente un modello di business. A differenza di un business plan tradizionale, tipicamente composto da oltre 30 pagine e che necessita di settimane o mesi per essere redatto, il Lean Canvas è composto da una sola tabella realizzabile anche solo in 20 minuti.
Ne risulta uno strumento veloce e conciso che permette da un lato di produrre e validare in poco tempo molteplici modelli di business e dall’altro obbliga a focalizzare l’attenzione esclusivamente sui punti salienti e più importanti del prodotto.
Le sezioni del Lean Canvas
Il Lean Canvas è composto da 9 sezioni che possono essere compilate in ordine sparso, man mano che si hanno le informazioni, anche se tipicamente si segue l’ordine seguente:
- Customer segmentation. Chi sono i nostri clienti e i nostri utenti e come questi sono “segmentati”: stile di vita, età, amatori o professionisti del settore, livello di coinvolgimento tecnologico e così via. In questa sezione andiamo principalmente a sciogliere questi nodi.
- Problem. In questa sezione si vanno a individuare i principali 3 problemi che deve risolvere chiunque deve realizzare un prodotto. Se esistono, è consigliato anche elencare le possibili soluzioni del problema che ad oggi già esistono, anche se si tratta di soluzioni parziali.
- Unique value proposition. Spiega il motivo di esistere del prodotto/servizio che si sta realizzando. In che cosa si differenzia dagli altri? Perché i clienti dovrebbero comprarlo? Questa forse è la sezione più importante del modello in quanto catalizza l’attenzione del lettore e illustra le motivazioni alla base della vision.
- Solution. Qui si elencano le principali 3 caratteristiche del prodotto che risolvono i problemi sopra esposti e che dimostrano la unique value proposition.
- Channel. Questo spazio è dedicato ai canali per mezzo dei quali si può “consegnare il valore del prodotto” ai clienti.
- Cost structure. I costi da sostenere per realizzare il modello di business descritto vanno indicati qui, identificando costi fissi o strutturali, ricorrenti, variabili (ossia quelli che sono funzione della quantità prodotta). Si devono inoltre indicare le economie di scala che si possono realizzare con particolari politiche di produzione, vendita, cessione, noleggio…
- Revenue stream. Identificare il flusso dei ricavi generato dalla realizzazione del modello di business. Più in particolare, in questa sezione, si andrà a descrivere la struttura dei prezzi.
- Key metrics. Quali sono le attività che si andranno a misurare per capire l’andamento del business? Esempi di queste metriche sono: acquisizioni, attivazioni, retention, referenze, revenue, e così via
- Unfair advantage. Provare a valutare se questo prodotto ha qualcosa che difficilmente potrà essere copiato o replicato dalla concorrenza.
Oltre la visione e il modello di business: la strategia
Vision e business model forniscono una serie di specifiche di alto livello utili per capire il senso del prodotto (perché lo facciamo?) e come questo possa procurare benefici all’utente finale (risolvendo dei bisogni) e all’azienda produttrice (procurando ricavi).
Non forniscono invece indicazioni concrete sul come trasformare tali specifiche in azioni concrete per progettare, realizzare, vendere — ed eventualmente supportare il fine vita — di un prodotto. Serve un’adeguata strategia che suggerisca cosa fare in ognuna di tali fasi del ciclo di vita del prodotto.
Una strategia di prodotto rappresenta quindi un collante fra la cosiddetta Big Picture e le singole azioni che si devono svolgere durante il ciclo di vita del prodotto; la strategia dovrebbe fondere aspetti legati al mercato/utenti/bisogni, obiettivi di business dell’azienda produttrice, elementi chiave o differenziatori unici.
La scelta della strategia è un passaggio importantissimo, tanto da decretare il successo o il fallimento dell’intero prodotto.
Tipo di prodotto e scelta della giusta strategia
Ogni nuovo prodotto dovrebbe sempre portare una certa dose di innovazione, altrimenti è inutile o addirittura controproducente; per questo motivo, per scegliere la strategia adatta si può valutare il prodotto in termini di innovazione.
Più che capire quanto il prodotto sia innovativo, è preferibile cercare di capire come è innovativo, ossia valutare che tipo di innovazione introduce. Interessante a tal proposito è il lavoro di Bansi Nagji e Geoff Tuff riportato in un articolo del 2012 pubblicato sulla Harvard Business Review [4].
Nel loro lavoro, i due autori classificano l’innovazione di un prodotto in base a tre macrotipologie: innovazione interna all’attuale modello operativo (Core Innovations), innovazioni limitrofe (Adjancent Innovations) e innovazioni dirompenti o trasformazionali (Disruptive Innovations).
Ogni macroarea si distingue per impatto, comportamenti necessari, caratteristiche del prodotto e del mercato dove ci si muove.
Una versione visuale di questa classificazione è rappresentata dalla Innovation Ambition Matrix, utilizzabile anche in forma di tool/workshop collaborativo in cui PO, team di sviluppo e vari stakeholder collaborano per comprendere meglio il prodotto in esame [5].
Innovazioni interne
Si ha una core innovation quando di vuole migliorare un prodotto esistente per renderlo al passo coi tempi, oppure in modo che sia nuovamente appetibile sul mercato, magari grazie a qualche piccola modifica o riduzione del prezzo.
Il prodotto evolve, di poco, rimanendo all’interno del proprio mercato e rivolgendosi agli stessi utenti di prima. Richiede investimenti ragionevoli e necessita di investire in aree conosciute (rischio imprenditoriale medio-basso). Si pensi alle operazioni di restyling o ai minor upgrade apportati ogni due o tre anni alle automobili come ai personal computer portatili.
Il tipo di beneficio economico o di immagine è limitato se non addirittura non percepito dal mercato, che peraltro giudicherebbe negativamente l’assenza totale di core innovations. Il prodotto prolunga quindi il suo ciclo di vita, prima di essere sostituito da un prodotto completamente nuovo.
Un’innovazione di questo tipo di fatto è una ottimizzazione non necessariamente rivolta al prodotto in sé, ma a volte al processo produttivo — per ridurre i costi—, al canale di distribuzione o al modello di commercializzazione così come alla comunicazione. Dettaglieremo nei prossimi articoli quali sono i comportamenti più adatti quando si deve far evolvere in un contesto “core”.
Innovazioni limitrofe
Le adjacent innovations si hanno quando un prodotto esistente subisce modifiche o evoluzioni tali da trasformarlo in qualcosa di nuovo, traghettando l’azienda in un mercato nuovo, ma comunque già esistente. L’azienda deve reperire rapidamente tutte le informazioni circa la nuova popolazione di clienti, i loro bisogni, eventuali nuove modalità di ingaggio, nonché informazioni sul mercato o sui concorrenti che già operano in quel settore.
Si pensi per esempio al caso di Nokia, nata come azienda produttrice di gomma e poi di cavi elettrici, passata nel settore dei televisori e degli elettrodomestici e finita nel ramo elettronica e telecomunicazioni.
Rispetto al caso precedente, costi e rischio d’impresa sono certamente maggiori: non è detto che l’azienda sappia giocare le differenti regole del nuovo mercato e sappia quindi essere competitiva, oppure che il nuovo prodotto risulti appetibile nel nuovo mercato.
Questo salto può avvenire stringendo alleanze con aziende che già si muovono in quel settore, oppure comprandone una più piccola. A volte può essere utile creare business unit apposite o addirittura aziende nuove come spin off della casa madre. Anche in questo caso, vedremo nelle prossime puntate quali sono le modalità operative più efficaci quando ci si muove all’interno di questa area.
Innovazioni dirompenti
Le innovazioni precedenti permettono all’azienda produttrice di continuare a vendere il proprio prodotto tramite una serie di investimenti accollandosi rischi tutto sommato contenuti. Discorso differente quando l’innovazione è più spinta, quando si tratta di disruptive innovation: in questo caso l’azienda crea un nuovo prodotto non paragonabile a quelli già presenti sul mercato, che spesso è talmente innovativo da creare un nuovo mercato, o da distruggerne altri già esistenti; assembla nuove topologie di utenti, risponde a nuovi bisogni addirittura anticipando o creandoli da zero.
Un prodotto di questo tipo usa spesso una tecnologia “dirompente”, ma non è detto che la presenza di una tecnologia dirompente faccia automaticamente nascere un prodotto in grado di cambiare il mercato. Oltre a questo, creare un prodotto dirompente non è sufficiente, spesso è necessario che l’azienda produttrice cambi anche il proprio modo di operare, di rapportarsi con i clienti, nella vendita, nella distribuzione, nell’assistenza.
Si pensi al caso di Netflix: non solo l’azienda ha investito nella creazione di una piattaforma di streaming tecnicamente avanzata, ma l’ha riempita di contenuti di qualità e ha cambiato modello di business: rispetto al classico canone di altri concorrenti, ha semplificando l’esperienza utente sia nella fase di abbonamento che di disdetta. Con Netflix, non è tanto strano abbonarsi più volte l’anno per periodi anche brevi; si provi a fare la stessa cosa con una compagnia telefonica o con un altra azienda televisiva…
Trasformazione
Questo ambito viene detto trasformazionale, non solo dal punto di vista del prodotto ma anche e soprattutto dell’azienda: l’organizzazione deve modificare radicalmente il modo di agire, abbandonare alcune pratiche che le avevano permesso di vivere e prosperare fino a quel momento, farne alcune in modo differente, iniziarne di nuove. Si devono acquisire nuove conoscenze, tecnologie, rivoluzionare i processi.
È necessario uno spirito imprenditoriale e innovativo non comune, la capacità e la volontà di sperimentare, accogliere successi e fallimenti. L’adozione di principi come il Lean Startup o le metodologie agili possono essere di grande aiuto. Una strategia vincente potrebbe essere quella di creare un’azienda o addirittura un incubatore per attrarre risorse e idee nuove.
Conclusione
Nella prossima puntata di questa serie vedremo quali sono le strategie e i comportamenti necessari o vincenti in funzione del tipo di innovazione che si sta cercando di perseguire; parleremo di strategie operative, di modelli organizzativi, e delle differenti strategie da perseguire a seconda che ci si trovi in fase di sviluppo e produzione, commercializzazione, maturità o fine prodotto.