Dall’underground al mainstream…
…o dalla nicchia al successo planetario, dalla contestazione al governo della nazione, da prototipo “in garage” a prodotto su scala industriale, e così via. Che si tratti di movimenti culturali o politici, di artisti visuali o musicisti, di ritrovati tecnologici o invenzioni, il passaggio da elemento conosciuto da pochi e adottato in cerchie ristrette a idea/prodotto/servizio diffuso nelle masse è fenomeno cui — nella società industriale e post-industriale, per non guardare ancora più indietro — abbiamo assistito tante volte, in tanti ambiti diversi.
“Era meglio il demo!” o “Erano meglio nel tour del primo album! Quando li andavamo a sentire in cinquanta…” sono stati refrain tipici per chi, come chi scrive, ha sempre avuto grande attenzione alle produzioni musicali meno pop e più sconosciute: nel momento in cui qualche band o musicista raggiungeva il successo anche di pubblico, magari dopo anni e anni di faticosa e oscura carriera, c’era sempre chi faceva pesare il suo snobismo. Non sempre a sproposito, a onor del vero…
Ad ogni modo, però, crescere è un processo importante per chiunque intraprenda un qualsiasi percorso creativo. E uso il termine “creativo” in senso molto ampio.
Crisi di crescita
Come gli organismi, i sistemi naturali e quelli socioeconomici, anche le idee, e i movimenti in cui esse si incarnano, sono soggette a “crisi” di crescita: siamo comunque in presenza di fenomeni culturali in senso lato, che non si svincolano certo dalle dinamiche che valgono per altri processi storici.
In tal senso, anche le pratiche comunemente raccolte sotto l’ombrello dell’aggettivo Agile, e il movimento che tali principi e pratiche ha creato e fatto crescere, stanno attraversando un momento di indubbia crescita legato all’emersione dal “sotterraneo” e al passaggio “in primo piano” di cui parlavamo all’inizio. Del ciclo di adozione di un prodotto e del suo passaggio da “start-up” a “mainstream” si occupa tra l’altro un vero best seller come Crossing the Chasm [7] pubblicato inizialmente nel 1991.
Questo, inevitabilmente, porta anche a dubbi, malintesi, ripensamenti, riaggiustamenti di rotta, adattamenti che le varie componenti vivono con approcci e considerazioni differenti, a volte addirittura contrastanti. Ma è tutto normale: ciò che — trasformando un aggettivo in sostantivo — chiamiamo Agile, non è più una novità, esiste da una ventina di anni, si è diffuso a livello globale e deve fare i conti con la sua nuova dimensione mainstream.
Le stagioni di Agile
Prima di entrare nel pieno della discussione, ricordiamo ancora una volta che, a voler essere precisi, il termine “agile”, che sia inteso in inglese o in italiano, andrebbe usato come aggettivo: Agile Software Development, Agile Coach, metodologie agili — e già qui qualcuno potrebbe, giustamente, storcere il naso — principi e pratiche agili e così via.
Ma è un fatto che ormai Agile abbia assunto, specie da noi, il valore di un sostantivo, andando a significare per molti “i valori, i principi, le pratiche, i metodi, gli strumenti etc.” in qualche modo riferibili, ma non limitati, all’Agile Manifesto [1].
Una storia già “lunga”
Per capire come si sia arrivati a questo slittamento di significati, che nella realtà implica molto più che lo scambio grammaticale tra due parti variabili del discorso, è bene dare uno sguardo all’indietro, ma anche in avanti, alla storia e allo sviluppo del movimento agile nel mondo.
Qualche data può aiutarci intanto a capire che stiamo parlando di una “storia” relativamente lunga, almeno nei termini di tecnologie e metodologie ICT: lasciando da parte l’intuizione di Nonaka e Takeuchi di più di trenta anni fa [2] in cui viene effettivamente usato per la prima volta in ambito industriale il termine scrum mutuato dal rugby, la prima codifica di Scrum come metodologia di sviluppo è del 1995 [3], e il Manifesto per lo sviluppo agile di software è stato pubblicato nel 2001. Agile non è quindi una “novità”, anche se, come scrivevamo sopra, è solo degli ultimi anni l’emersione mainstream di queste tematiche.
Provate, per un attimo, a guardare al 2001: quante vicende, quanti mutamenti sono intercorsi? Perché mai i temi dell’agilità non avrebbero dovuto adeguarsi a queste trasformazioni? Eppure, una delle quattro principali affermazioni del Manifesto Agile è proprio “Rispondere al cambiamento più che seguire un piano”…
Tre fasi di evoluzione
Esattamente tre anni fa, un articolo [4] tentava di dare una “scansione temporale” in tre ondate all’evoluzione dei temi, degli approcci e delle conoscenze che facciamo ricadere sotto l’ampio ombrello agile.
Riassumendo:
- La prima ondata, cominciata a inizio millennio, è quella in cui si sono messe a punto le modalità che consentissero ai team di lavorare in gruppo così da adattarsi meglio alla realtà della produzione e alle necessità del cliente. È l’epoca delle “metodologie” e dalla diffusione di XP e Scrum. Gli anni “assiali” di questa ondata sono da collocarsi immediatamente dopo la metà dello scorso decennio: dei frutti di quell’impegno continuiamo tuttora a usufruire.
- La seconda ondata, cominciata intorno al 2007, si concentra sul tema di scalare Agile e questo perché, almeno in certi mercati, le metodologie sviluppate nella fase precedente si sono dovute misurare con processi produttivi più ampi e complessi, che spesso non riguardavano ormai solo il software. Una consenguenza dell’incontro con queste realtà è l’importanza attribuita alle funzioni che sostengono il flusso attraverso cui si crea valore nell’organizzazione: per esempio le “risorse umane” (HR), le Operations, i framework — come LeSS, SAFe, Disciplined Agile e compagnia bella — atti a facilitare Agile at scale. È una fase al suo apice proprio negli anni che stiamo vivendo o che forse ha già raggiunto la vetta e cominciato la fase di discesa.
- La terza ondata è quella dell’agilità per il business. Nata intorno al 2010, si svilupperà al massimo nei prossimi anni. C’è uno spostamento del focus dal particolare al generale, con lo scopo di favorire una cultura aziendale che sia agile nel suo complesso: a fronte di team di sviluppo che adottano metodologie agili o settori produttivi che le scalano, c’è un’intera struttura che “diventa agile”. Pratiche innovative di management, stili diversi leadership, e tutto ciò che favorisce un approccio olistico all’organizzazione assumono grande importanza in questo contesto.
Un’idea “allargata” di Agile
Diventa chiaro che, per molti, Agile ha assunto ormai un significato che travalica lo sviluppo del software e si spinge a comprendere tutta l’economia della conoscenza. Non è quindi strano che, accanto ai framework metodologici, abbiano assunto sempre più importanza tematiche quali le teorie della complessità, le esperienze delle organizzazioni che apprendono [5] o un nuovo modo di concepire il “viaggio” delle persone all’interno del proprio percorso lavorativo in termini di competenze, ruoli e carriere, ossia ciò va sotto il nome di Agile HR.
L’agilità viene sempre più intesa come un insieme di principi e pratiche in evoluzione volti a migliorare la creazione di valore nei vari aspetti della progettazione, della realizzazione, del marketing e della gestione del prodotto. Il che non significa dimenticare XP o Scrum o rinnegare il Manifesto Agile, ma ma allargare la prospettiva.
Un contesto globale
All’ampliamento della prospettiva di quelle che all’inizio erano solo alcune innovative pratiche per lo sviluppo del software, guidate dai principi sistematizzati in un manifesto, ha contribuito senza dubbio la loro diffusione a livello globale — legata proprio all’industria del software — e l’influenza che i diversi ambiti culturali hanno a loro volta avuto sull’approccio agile.
L’approccio agile nasce in un preciso contesto culturale (che è quello nordamericano di inizio secolo) e socioeconomico (che è quello riferito all’industria dello sviluppo software). Ma il mondo non è l’America e, pur in presenza di un certo livellamento dovuto alla globalizzazione economica e alla diffusione dei social media , certe differenze legate alla cultura, alle aree geografiche, alle tradizioni filosofiche e religiose non sono state annullate. E in certi casi hanno apportato degli elementi per l’evoluzione dell’Agilità.
Oltre a questo, ci si è resi conto che prima ancora che le metodologie in senso stretto, si potevano applicare certi principi e certe pratiche ad altri ambiti produttivi che non fossero solo quelli dello sviluppo software.
E che dire di quegli argomenti che, pur non essendo strettamente catalogabili come “Agile” in senso “ortodosso”, sono stati riscoperti e/o sviluppati proprio grazie al successo dell’agilità? Dalla Lean Production con le pratiche che ne derivano come Kanban, a un modo diverso e più contestualizzato di fare HR (per comodità denominato Agile HR).
Reazioni e “controriforme”
Va detto anche che a questa concezione più ampia, ma anche meno “ortodossa” dell’agilità, non sono mancate risposte che tentassero di “richiamare” all’ordine.
Una di quelle che ha fatto più discutere è stato l’invito ad abbandonare Agile fatto agli sviluppatori da parte di Ron Jeffries, uno dei padri del Manifesto Agile. In pratica, in un suo articolo dello scorso anno [6], venivano illustrate le ragioni che dovrebbero spingere gli sviluppatori a distaccarsi dal termine Agile, a concentrarsi sulle pratiche di sviluppo software, quali eXtreme Programming, a rilasciare a intervalli molto brevi di tempo (una o due settimane) software testato, funzionante e integrato, concentrandosi sullo sviluppo di una funzionalità per volta.
Si tratta, come è facile capire, di una riproposizione dei principi contenuti nel Manifesto Agile, da cui conseguono comportamenti molto pratici e sensati. Ma non sfuggirà che è un discorso rivolto agli sviluppatori e inerente alla scrittura di software. È chiaramente un ritorno alle origini, che però sembra quasi non voler prendere atto degli enormi cambiamenti che sono avvenuti in questi ultimi venti anni… È chiaro che per gli sviluppatori, l’unico vero appiglio resta il software reale e funzionante, prodotto a ritmi sostenibili.
Due visioni. Contrastanti?
È chiaro che, ai due estremi, si individuano due visioni diverse, addirittura contrastanti. Da un lato ci sono coloro che chi concepiscono “agile” come strettamente legato al Manifesto per lo sviluppo agile del software e a tecniche (XP per prima) di programmazione: principi e pratiche che consentono, in maniera sostenibile, di rilasciare software funzionante a intervalli di tempo brevi e cadenzati, facendo sempre riferimento al prossimo incremento di software come base per la discussione con management e stakeholder.
Dall’altro lato si pone chi, dopo aver magari sperimentato l’efficacia dei principi e delle pratiche agile per lo sviluppo del software, ha ampliato lo spettro di azione portando certi valori e un determinato approccio a settori produttivi non strettamente software e all’intera organizzazione, magari partendo proprio dal management.
Se non si prende atto di queste “correnti” all’interno del Movimento Agile, molti fraintendimenti continueranno ad esistere; è comunque difficile conciliare le posizioni più estreme, tra “ortodossi” e “riformati”.
Con un approccio più “laico”, forse certe polemiche si possono superare concentrandosi sul senso ultimo di quello che si sta facendo (“creare valore”?) più che sull’adesione pedissequa a una serie di enunciazioni, per quanto giuste e sensate.
Conclusioni
Che lo si chiami Agile in senso proprio o esteso, quel che conta è che tutti, alla fine, lavorino meglio, in modo sostenibile, con un continuo e cadenzato rilascio di valore, e con la realizzazione di soluzioni funzionanti che soddisfino le reali necessità del cliente.
L’evoluzione degli scenari produttivi e dei contesti culturali e organizzativi in cui si realizzano prodotti — non solo software — richiede una adattabilità e una capacità di sintesi rinnovate, che non rinneghino quanto di buono pensato venti anni fa dai padri del Movimento Agile, ma che non perdano mai di vista la realtà mutata e il contesto rinnovato in cui si opera.