L’arte di non farsi capire
Se c’è un tema di cui tanto si è parlato in Italia in questo ultimo anno abbondante — al di là degli argomenti di stretta competenza medica e farmaceutica — è quello del lavoro agile. E di questo dovrebbe essere ben contento chi si occupa di principi e pratiche Lean/Agile, temi estensivamente trattati su MokaByte: finalmente un riconoscimento presso “il grande pubblico” di un approccio contemporaneo ed efficace alla gestione dei processi, dei gruppi di lavoro, dello sviluppo del software e della realizzazione di prodotti in genere.
Peccato che, quando il giornalista di turno parla di “lavoro agile”, stia facendo riferimento al lavoro a distanza, non in presenza, svolto con modalità anche piuttosto differenziate. La cosa buffa è che, mentre è molto chiaro più o meno a tutti che cosa sia la Didattica a DIstanza — da tanti abbreviata in DaD — nessuno si sia sognato di chiamarla “didattica agile”. E con buona ragione, dal momento che con l’agilità, nel senso di Agile Manifesto [1] e metodologie agili, la didattica a distanza ha ben poco a che vedere. Esattamente come il cosiddetto “lavoro agile”, che nulla ha a che vedere con lavorare secondo principi e pratiche Agile…
La chiarezza che servirebbe
Anni fa, su queste pagine, fu pubblicato un articolo [2] che, in modo ironico ma molto chiaro, spiegava le differenze e i punti di contatto fra la professione di consulente, quella di coach e quella, più specificamente, di agile coach. È stato uno degli articoli più apprezzati, nel corso degli anni, proprio perché riusciva a fare chiarezza, peraltro con un tono divertente e leggero, su alcuni concetti che, tante volte, non risultavano abbastanza chiari, almeno non a chi non fosse già pienamente addentro alla crescente affermazione del movimento Agile in Italia.
Senza voler bissare il “successo” di quell’articolo, nelle brevi note che seguono vogliamo fare chiarezza su concetti quali, da un lato, lavoro agile, smart working, telelavoro, lavoro a distanza (come parallelo della didattica a distanza) e, dall’altro, vere e proprie pratiche agili nel senso inizialmente promosso dall’Agile Manifesto.
La legge, per cominciare
Ma allora, da dove nasce questo equivoco per cui legioni di giornalisti, e anche stuoli di manager a dire il vero, usano l’espressione “lavoro agile” in modo sbagliato? Perché, nell’opinione pubblica, o perlomeno in quella piccola parte di essa che ancora si interessa a certi temi, lavoro agile è sinonimo di smart working — altra espressione tutta da commentare, come vedremo — e non significa invece “organizzazione dei processi produttivi attraverso l’adozione di principi e pratiche Agile in azienda”?
Di fatto, lo ha deciso lo Stato Italiano. Nella seconda metà degli anni Dieci, infatti, svariati atti legislativi hanno affrontato i temi del lavoro, per tentare di adattare la legislazione esistente, spesso riferita a un’organizzazione del lavoro pensata per il modello “classico” novecentesco di fabbrica e ufficio, alle mutazioni intervenute nelle modalità di occupazione e svolgimento delle attività lavorative. Con nomi spesso quantomeno “pittoreschi” — dal Jobs Act al cosiddetto “Decreto dignità” — questi atti legislativi non potevano certo dimenticare la diffusione delle nuove modalità di lavoro, consentite dalla diffusione delle reti e dalla disponibilità di strumenti hardware e software a livello consumer che neanche troppi anni fa erano pensabili solo all’interno dell’azienda. E con “interno” intendiamo proprio fisicamente…
In particolare, la Legge n. 81 del 22 maggio 2017 ha affrontato i temi che riguardano lo svolgimento di lavoro subordinato svolto non nei consueti luoghi di lavoro centralizzati, ma da remoto. Questa legge 81/2017 è conosciuta anche come “Legge sul Lavoro Agile” [3] perché il legislatore, per astrusi motivi a noi sconosciuti, ha stabilito che agile = da remoto, effettuando un forzatura, anzi una vera e propria stortura, del significato della parola “agile” nell’ambito dei processi e dell’organizzazione del lavoro. Probabilmente, sentita da qualche parte la parola Agile riferita a nuove modalità di lavoro, si è erroneamente ritenuto che si facesse riferimento all’uso di strumenti tecnologici connessi a distanza e non, come invece è giusto, a modalità organizzative e di processo che implicano approcci iterativi e incrementali, cicli brevi di rilascio, feedback continuo e così via.
Il “lavoro agile” non è autonomo
A di là di questo, la normativa in sé era necessaria, perché si definisce finalmente in modo chiaro il lavoro subordinato da remoto stabilendo quali sono i diritti e i doveri del lavoratore e fin dove può arrivare il controllo da parte del datore di lavoro. Vengono inoltre presi in considerazione gli strumenti, i modi e gli orari con cui è possibile eseguire l’attività da remoto.
Si badi bene che si sta parlando di lavoro “dipendente”: non stiamo parlando del lavoro autonomo da remoto che tanti professionisti svolgono ormai da decenni in maniera orientata agli obiettivi e ai risultati. La legge sul “lavoro agile” si occupa di favorire un’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato, su base volontaria, con l’uso di strumenti tecnologici, che sia positiva sia per il lavoratore che per l’imprenditore che lo ha tra i propri dipendenti.
Le parole, poi
Ad aggiungere altre complicazioni alla nostra “equazione della confusione” (lavoro agile = lavoro da remoto), ci si sono messi ulteriori slittamenti nel significato delle parole, introdotte anche questie con documenti ufficiali.
L’INAIL (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro) ha pubblicato nel febbraio 2020 un’informativa sulla salute e sicurezza nel lavoro agile [4] in cui si affrontano sacrosante tematiche preventive per chi si avvalga del lavoro da remoto, ma si usa più volte la definizione di smart working per indicare quello che nella legge 81/2017 è definito lavoro agile. Quindi, a questo punto, abbiamo che smart working = lavoro agile = lavoro da remoto. La cosa non è sorprendente, se si tiene presente che l’80% della terminologia inglese usata in italiano, in maniera ufficiale o solo consuetudinaria, è sempre sbagliata.
Tutti conosciamo l’uso della parola smoking per indicare in Italia l’abito maschile completo per occasione formale da sera con cravatta nera, che però i britannici chiamano dinner jacket e gli americani tuxedo. Lo stesso succede con la parola trolley che in inglese britannico può significare “carrello della spesa”, “lettiga con ruole” o “carrello portabagagli” (quelli che si usano in aeroporto), mentre in inglese americano vuol dire “tram”; ma non significa mai “valigia con le ruote” che è invece il seignificato che gli attribuiamo in italiano.
Ecco, qualcosa del genere deve essere successo anche con il lavoro da remoto, perché il termine “smart working” che, almeno da un punto di vista linguistico, sembra inglese, in realtà non è usato né dai britannici, né dagli americani…
A riprova di questo fatto, si provi a cercare la pagina “smart working” o “smart work” sulla versione inglese di Wikipedia: non la si troverà. La voce che più si avvicina al concetto di “smart work = lavoro agile” secondo quanto decretato dal legislatore italiano è infatti quella di “Telecommuting” [5] che comprende in modo estensivo anche il termine più correttamente definibile in italiano come “telelavoro” di cui parleremo fra pochissimo. E la pagina in questione segnala chiaramente la “particolarità” del panorama italiano quano scrive, molt correttamente:
In Italy, smart working is defined as an agreement between the parties with no precise constraints in terms of working hours or workplace and with the possible use of technology to enable the work to be performed.
Di fatto, tale frase dice che il termine “smart working” ce lo siamo inventati di sana pianta noi italiani, ma spiega anche correttamente di che cosa si tratta. E in questo senso, il “lavoro agile = lavoro da remoto = smart working” della nostra normativa è sicuramente differente dal telelavoro — parola che suona molto in stile “futurologi” degli anni Settanta — perché tra le due cose c’è un aspetto dirimente molto significativo.
Sempre restando nell’ambito del lavoro subordinato, infatti, il telelavoro, disciplinato già a partire dal 2004 sia nel pubblico che nel privato, non è altro che lo svolgimento del proprio lavoro con le medesime modalità che si avrebbero in azienda (orari, disponibilità, mansioni, rapporti “gerarchici” etc.) ma fatto in una postazione fissa fuori dalla sede fisica dell’azienda. Pensiamo a un help desk di un prodotto tecnologico di alto livello, in cui l’esperto che risponde al cliente non deve necessariamente stare “in azienda” mentre effettua il suo lavoro, ma, di fatto, ha un orario ben preciso, dei compiti chiaramente identificabili, etc.
Lo “smart working” invece, che è sempre lavoro subordinato, viene concepito dalla nuova legge 81/2017 come modalità di esecuzione del rapporto di lavoro che deve essere stabilita con un accordo tra datore e dipendente, che in genere utilizza strumenti tecnologici, e che si basa più sull’autonomia operativa del dipendente, adottando un’organizzazione basata su cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro.
Del perché sia subito entrato nel linguaggio comune il termine DaD per la Didattica a Distanza e non si sia fatto ricorso a LaD per il Lavoro a Distanza resta un mistero…
E infine la realtà
E quindi adesso abbiamo capito perché tutti parlano di lavoro agile e di smart working. A sproposito, sotto molti punti di vista, ma con una motivazione indiscutibile: è scritto nelle leggi dello Stato. La pandemia di CoViD-19 ha dato una spinta affinché si ricorresse al lavoro stando a casa, almeno per quelle attività e quelle categorie in cui ciò era possibile.
Ma, nella realtà, Agile vuol dire altro. Fuori dall’Italia, nel mondo dello sviluppo software e della gestione dei processi, Agile è legato esclusivamente a una concezione del lavoro che recupera alcuni concetti della produzione Lean e sperimenta infrastrutture metodologiche basate su concetti come lo sviluppo iterativo e incrementale, i cicli brevi, il feedback continuo, il rapporto diretto e costante con il cliente, la capacità di rispondere ai cambiamenti più che seguire pedissequamente un piano prestabilito in partenza.
Agile è la presa di consapevolezza che le organizzazioni sono complesse e che, per gestirne i processi, gli approcci novecenteschi rigidamente predittivi non funzionano più. E in Italia, anche se lavoro agile vuol dire per tanti “lavoro da remoto”, il concetto vale comunque.
Agile e cambiamento
Certo, l’agilità ha subito un’evoluzione e dei cambiamenti nel corso degli ultimi anni, allargando il proprio orizzonte dai piccoli gruppi di sviluppo software alle grandi organizzazioni [7]. Ma certi concetti, compreso quello della interazione diretta fra le persone, restano validi e anche nelle situazioni in cui, per forza o per scelta, sia sensato ricorrere al lavoro da remoto, questi aspetti non devono andare perduti [6].
Conclusioni
In questo articolo abbiamo visto da dove nasce l’equivoco per cui in Italia la definizione “lavoro agile” è diventato equivalente di “lavoro da remoto”, quando invece Agile indica un insieme di principi e pratiche per la gestione dei processi produttivi che si basano sugli assunti del Manifesto Agile e che si sono evoluti in questi anni abbracciando in maniera più ampia i concetti di complessità legati alle grandi organizzazioni.
Ormai da un decennio, su queste pagine, ci occupiamo anche di agilità e ci sembrava giusto mettere in chiaro la questione. Ovviamente aperti a ogni futuro sviluppo.