Introduzione
Nell’articolo precedente abbiamo affrontato quel concetto su cui si insiste nella Guida Scrum: la necessità che lo Scrum Team sia cross-functional ossia “multidisciplinare” o “interdisciplinare”, vale a dire che non si lavori per compartimenti stagni legati a competenze ultraspecializzate. Lo Scrum Team possiede tutte le competenze necessarie per creare valore a ogni Sprint, e questo implica che siano presenti competenze diverse e variegate, sia perché possedute dalla stessa persona, sia perché il team è composto da più persone con competenze diverse.
In questa seconda parte, allarghiamo lo sguardo su qualche esempio di “interdisciplinarità” svincolato dallo stretto rapporto con il mondo Lean/Agile, ma che rinforza la convinzione che l’idea del team cross-functional che oggi ci appare così innovativa, abbia in realtà accompagnato l’umanità per gran parte della sua storia.
La “vasca di Taylor”
Nel precedente articolo ci eravamo lasciati con l’immagine della cosidetta “vasca da bagno di Taylor”, con riferimento a Frederick Taylor che in L’organizzazione scientifica del lavoro (1911) formulò la sua teoria del management destinata a influenzare l’organizzazione aziendale e la produzione industriale per tutta la prima metà del Novecento, e anche oltre.
L’idea di questa “vasca da bagno” viene dalla forma di un grafico pubblicato nel libro Organize for Complexity [2], qui ripubblicata tradotta e con un ulteriore testo esplicativo (figura 1).
Con questa immagine, l’autore Niels Pflaeging intendeva mettere in luce la differenza tra l’apporto della porzione dinamica e creativa nella creazione di valore, dato dalle persone, e quella formale e standardizzata, legato alla produzione con le macchine in catena di montaggio, nella creazione di valore. E tale differenza viene legata al tipo di mercati in cui si opera — dai mercati di portata locale dell’epoca pre- e protoindustriale a quelli globali delle società attuali — e ai processi di produzione.
Evoluzione non progressiva
Per un’eredità culturale legata al pensiero positivista diffusosi nella seconda metà dell’Ottocento, siamo spesso portati a pensare che il “dopo” sia sempre migliore del “prima” e che il cammino dell’umanità sia rappresentabile come una lenta, costante scala di progresso verso il miglioramento delle conoscenze e delle condizioni di vita.
Ma in realtà la storia non procede affatto così, e in questo senso, ad esempio, non deve sorprenderci che, nel mondo contemporaneo delle piccole aziende innovative e startup velocissime, i team full stack, interdisciplinari e capaci di autoorganizzarsi abbiano un’impostazione non poi tanto diversa rispetto a quella di una bottega artistica rinascimentale o di un artigiano del primo Ottocento…
La figura 1 ci aiuta anche a capire la vicinanza o, al contrario, la distanza tra chi “chi pensa” e “chi realizza” il prodotto: in certi tipi di produzione, thinker e doer sono molto vicini o addirittura coincidono nello stesso individuo. Nel sistema di produzione industriale basato sull’industria a catena di montaggio tipico dell’organizzazione fordista/taylorista della prima metà del Novecento, tali ruoli sono fortemente divaricati: le due “categorie” dei “pensatori” e dei “fabbricatori” di prodotto sono separate e distanti.
È un po’ il ritorno del concetto dell’artigianato in relazione alla produzione di massa. Per un artigiano, così come per una piccola startup, “fare” un prodotto significa seguirlo in tutte le fasi del progetto, senza peraltro considerare finito il prodotto quando esce dalla fabbrica, ma seguendolo in tutte le fasi del suo ciclo di vita.
Ma possiamo andare ancora più indietro, ancor prima delle società stanziali e produttive, fino alle culture dei popoli cacciatori-raccoglitori: quelli che, per la già citata eredità positivista, siamo abituati a chiamare sbrigativamente “primitivi”.
Primitivo sarà lei!
Charles Brewer-Carias (n. 1938) è un singolare esempio di studioso [3]. Esploratore, botanico, antropologo sono etichette non del tutto adatte a descrivere il personaggio, che sembra uscito dai resoconti delle società scientifiche di epoca vittoriana più che appartenere, per quanto ormai ultraottantenne, a un panorama contemporaneo.
Venezuelano, ma di ascendenza britannica — suo nonno fu un diplomatico inglese nel Paese sudamericano — Brewer-Carias si è formato inizialmente come odontoiatra, ma in seguito ha approfondito gli studi di biologia. A partire dai primi anni Sessanta dello scorso secolo, ha condotto circa duecento spedizioni nella foresta amazzonica in un’area compresa tra la sua nazione e il territorio brasiliano, alcune delle quali protrattesi anche per due anni.
Tra gli indios amazzonici
Tra le esperienze che maggiormente hanno segnato questo studioso e anche piuttosto importanti sul piano scientifico, c’è sicuramente la lunga frequentazione di alcune popolazioni “primitive” che vivono nell’Amazzonia, nell’alto corso e nel bacino dell’Orinoco. In particolare Brewer-Carias ha trascorso lunghi periodi con gli Ye’kuana, il “popolo delle canoe”: si tratta di una popolazione di ormai solo circa settemila persone, che vive nella foresta pluviale ricavando da questo ambiente naturale la gran parte delle risorse necessarie per vivere.
Dopo i primi contatti con i colonizzatori europei, avvenuti alla fine del XVIII secolo, gli Ye’kuana sono stati progressivamente sempre più esposti alla civiltà e alla tecnologia “occidentali”: forme rudimentali di commercio consentono loro di procurarsi attrezzi e strumenti moderni cui ormai non vogliono più rinunciare. Oggiorno gli abiti in tessuto hanno sostituito gli indumenti tribali ricavati dalla corteccia di alberi, i machete in acciaio hanno preso il posto degli strumenti in legno e pietra e, accanto alle loro tradizionali canoe spinte con le pagaie, non manca qualche barchino equipaggiato con motori fuoribordo.
Ad ogni modo, il fatto di abitare in un luogo così remoto, e di non avere certo grandi disponibilità di spesa, fa comunque sì che questa popolazione continui a ricavare direttamente dalla foresta amazzonica la gran parte del sostentamento: a partire dall’alimentazione, costituita da prodotti animali e vegetali cacciati, pescati e raccolti — non allevati e coltivati — per passare alle abitazioni, delle solide capanne familiari a cui si aggiungono ripari temporanei costruiti in squadra con abilità ed efficienza, per finire con prodotti “medicinali” in grado di curare i malanni meno gravi, ricavati principalmente dal mondo vegetale di cui hanno profonda conoscenza pratica.
Che mestiere fai? Che cosa sai fare?
Perché parlare di popolazioni tribali, volendo parlare di principi validi in un moderno Scrum Team? Perché quel che successe a Charles Brewer-Carias ci fa riflettere proprio su uno dei mantra ripetuti a proposito dei gruppi di lavoro, inerente alle competenze, al modo in cui le concepiamo e alle modalità in cui queste ostacolano o favoriscono la buona riuscita dei processi.
Inizialmente lo studioso venezuelano avvicinò queste popolazioni per curarle, in quanto odontoiatra, ma presto si unì a importanti spedizioni antropologiche internazionali — principalmente statunitensi — e finì per dedicarsi sempre più alla conoscenza della loro cultura, al punto da imparare la loro lingua e da vivere per lunghi periodi con loro, condividendo tutte le difficoltà — e le scoperte — di un ambiente che non era il suo.
“Ma allora non sai fare nulla. E come fai a essere vivo?”
Nei primi momenti della sua nuova vita insieme agli indios Ye’kuana, Charles Brewer-Carias fu sottoposto a una specie di “intervista” da parte degli anziani della tribù che volevano inquadrare colui che, per tanti mesi, avrebbe vissuto con loro. La curiosità per il mondo da cui proveniva l’uomo che avevano conosciuto come odontoiatra e che ora diventava un loro compagno di caccia e raccolta si concretizzò in una serie di domande.
“Charles, voi avete il cibo in scatola. Ma tu sai come si fa il cibo in scatola?”
Un po’ vagamente, Brewer-Carias rispose: “Be’, si prende ad esempio la carne, la si cuoce, si preparano le latte facendole bollire e poi si mette la carne dentro. A quel punto si saldano i bordi delle lattine in modo che non possa entrare l’aria e il contenuto si manterrà a lungo”.
Perplessi, gli anziani Ye’kuana chiesero: “Charles, ma tu sai come si fa una pentola di metallo?”
“Be’, si prendono le lastre di alluminio e si effettua uno stampaggio su appositi stampi. Poi si leviga opportunamente e si monta il manico con delle viti”.
Gli Ye’kuana allora, provocatoriamente, dissero: “Bene, allora facciamolo”. Lo studioso dovette spiegare: “Ma non si può fare qui. Ci vuole una struttura industriale in grado di svolgere tutte queste attività”.
Allora gli indios gli chiesero: “E dicci un po’… Sai intrecciare un cesto? Sai costruire un’amaca? Sai procacciarti del cibo?”. La risposta di Brewer-Carias fu ovviamente negativa. “Ecco, Charles. Tu non sai fare nulla. Come fai a essere vivo? Non sei ancora un uomo. Se non impari a fare le cose, non meriti di essere vivo”.
Competenze, interdisciplinarità e contesto
Una dura lezione, che portò l’esploratore venezuelano a imparare tutto quel che era necessario per vivere nella foresta con pochissimi attrezzi e facendo affidamento solo su ciò che la foresta poteva fornire.
E che fa riflettere noi su cosa significhi “saper fare qualcosa” e su cosa siano le dipendenze non solo in termini tecnologici, ma anche da un punto di vista cognitivo. Chi era più competente, nel caso appena raccontato? Lo studioso “occidentale” che sicuramente aveva elevate competenze, specie di tipo medico e tecnologico? O i “primitivi” perfettamente integrati nel loro ambiente naturale, proprio come i loro antenati che ancora non erano stati contattati dai colonizzatori europei?
Tra gli aspetti che emergono maggiormente dai resoconti di Charles Brewer-Carias ci sono l’importanza del “lavoro” in piccoli gruppi che collaborano nelle attività di caccia e raccolta e il continuo trasferimento di competenze all’interno delle tribù con i giovani che imparano dai più anziani facendo le cose insieme.
La competenza va considerata nell’ambito del contesto in cui essa si espleta: è l’unione di una conoscenza (sapere) e di una capacità (essere in grado di fare) messa in pratica per svolgere un compito o trovare una soluzione. Quando la Guida Scrum [1] afferma che
Scrum Teams are cross-functional, meaning the members have all the skills necessary to create value each Sprint
fa riferimento proprio al fatto che competenze consentono la creazione di valore in quel contesto.
Conclusione
John Culkin (1928–1993), studioso dei mezzi di comunicazione di massa e accademico statunitense, sintetizzò in un articolo del 1967 alcuni elementi del pensiero del suo amico e collega Marshall McLuhan [4].
We shape our tools and thereafter they shape us
Nella acquisizione delle competenze e nel loro dispiegamento all’interno dell’organizzazione e del gruppo di lavoro in cui operiamo, dovremmo tenere in considerazioni anche questo aspetto.
Riferimenti
[1] La guida a Scrum, edizione 2020
https://scrumguides.org/scrum-guide.html
[2] Niels Pflaeging, Organize for Complexity: How to Get Life Back into Work to Build the High-Performance Organization. Lightning Source Inc., 2014
[3] Una biografia di Charles Brewer-Carias, su JSTOR
https://plants.jstor.org/stable/10.5555/al.ap.person.bm000033570
[4] J.M. Culkin. A schoolman’s guide to Marshall McLuhan. “Saturday Review” 18/03/1967, pp. 51-53, 71-72.