Gli impedimenti dell’apprendere
Prima di addentrarci all’interno della teoria del pensiero sistemico, può essere utile affrontare il tema dell’apprendimento organizzativo cercando di comprendere quali sono gli errori o impedimenti tipici che rendono difficile creare una organizzazione che apprende. Peter Senge riporta quelle che lui chiama le Learning Disability:
- Io sono la mia posizione
- Il nemico è là fuori
- Proattività e reattività
- La fissazione sugli eventi
- La parabola della rana bollita
- La disillusione dell’apprendimento dall’esperienza diretta
- Il mito del management team
Vediamo di cosa tratta ognuno di questi “antipattern”.
Io sono la mia posizione
Negli Stati Uniti degli anni Ottanta, durante una grave crisi industriale in un distretto per la lavorazione dell’acciaio, agli operai delle fabbriche di una azienda che aveva deciso per un piano di licenziamento piuttosto importante, furono offerti dei piani formativi per il collocamento in nuove mansioni lavorative. Con grande meraviglia dei responsabili del piano di aiuti, pochissimi aderirono a questo piano. Gli psicologi interpellati per scoprire le cause di tale reazione, evidenziarono negli operai una forte crisi di identità di fronte al cambiamento prospettato. La risposta tipica era “Io sono un operatore di tornio; come potrei fare altro?”.
Indagini più approfondite evidenziarono che le persone associavano la loro presenza in fabbrica all’insieme delle operazioni e delle mansioni svolte: nessuno menzionava lo scopo, il motivo per cui svolgevano quelle mansioni. Quasi tutti si vedevano parte di un sistema sul quale non avevano alcuna influenza. Tutti svolgevano il proprio lavoro nel tempo pattuito, secondo le regole prestabilite, ma senza comprenderne l’importanza nell’ambito dell’intero processo produttivo. Le persone non riuscivano a percepire l’importanza del contribuire al successo dell’azienda per esempio spostando il loro lavoro in altre aree o mansioni.
Altri studi che hanno messo a confronto la cultura lavorativa di differenti contesti — principalmente fra USA e Giappone — hanno evidenziato l’importanza della consapevolezza del contributo dei singoli nella creazione del valore collettivo; conoscere il motivo e le implicazioni del proprio lavoro era di stimolo per tutti a imparare continuamente nuovi modi di lavorare al fine di migliorare il processo e il prodotto. Detto in altro modo, quando le persone comprendono il senso del loro lavoro sono disposti a mettersi in gioco, sperimentare, a proporre o imparare nuovi modi per creare valore. In estrema sintesi, solo il coinvolgimento di tutti e la condivisione dello scopo del lavoro del singolo sono condizioni essenziali per la nascita di una organizzazione che apprende.
Il nemico è là fuori
Questo antipattern è molto frequente nei gruppi di lavoro, a qualsiasi scala e dimensione: i capi non capiscono, la divisione A non collabora, le persone della produzione non sanno costruire prodotti di qualità, i venditori non sanno vendere, i clienti non capiscono…
A causa della difficoltà nel collegare nel tempo e nello spazio la conseguenza delle nostre azioni, facciamo fatica a considerare ciò che è fuori come risultante o strettamente collegato al ciò che proiettiamo verso l’esterno. Vediamo di spiegare meglio questo passaggio con una serie di semplici immagini.
Pensiamo a un gruppo di persone che si trovano nella condizione lavorare a stretto contatto per un qualche motivo, per esempio per produrre un qualche prodotto o erogare un servizio.
È probabile, anzi è auspicabile, che queste persone inizino a interagire fra loro per il raggiungimento dello scopo: si parleranno, agiranno, collaboreranno.
Ben presto, questa continua interazione fra le persone darà a vita una serie di pratiche e processi condivisi o addirittura a una comune visione del mondo. Nasce il gruppo che identifica anche un confine oltre il quale ci sono “gli altri”.
Dagli “altri” arriveranno più o meno regolarmente sia richieste di lavoro, input di vario tipo ma anche giudizi e valutazioni che influiscono sul lavoro del team. Spesso questi “input” possono rappresentare un problema per il team che ha trovato un suo equilibrio e un modo ottimale di lavorare.
Normalmente il gruppo reagisce inviando verso l’esterno, oltre che il frutto del proprio lavoro, anche messaggi, valutazioni, osservazioni.
La cosa che risulta difficile al team, è collegare i flussi in uscita con quelli in entrata; a volte è difficile comprenderlo. Spesso è scomodo e passa per l’ammettere che il comportamento “assurdo” dei capi è spesso collegato al proprio.
Nel suo libro [1], Peter Senge scrive questa frase:
“Il nemico è là fuori” è tuttavia quasi sempre una storia incompleta. “Là fuori” e “qui dentro” sono di solito parte di un unico sistema. Questa incapacità di apprendere rende quasi impossibile scoprire la leva che possiamo usare “qui dentro” in merito a problemi che sono dall’una e dall’altra parte del confine tra noi e “là fuori”.
Spesso questo antipattern è legato alla incapacità di distinguere fra area di competenza (dove possiamo agire direttamente), di influenza (dove le nostre azioni hanno effetto diretto o indiretto) e tutto il resto (dove nulla possiamo).
Proattività e reattività
Essere proattivi è uno slogan molto in voga in questo periodo: si sente dire spesso che “dobbiamo essere proattivi, non reattivi” a significare dell’importanza di agire preventivamente per anticipare il problema invece che reagire quando questo si manifesta. Purtroppo, nella maggiore parte dei casi, proattività si traduce nell’impegnare tutte le energie alla ricerca dei primi segnali degli effetti di un problema. Ho visto che stava per esplodere un problema e mi sono attivato prima che fosse troppo tardi.
In realtà in questo modo semplicemente stiamo mascherando dietro un atteggiamento interventista la solita strategia reattiva: arriva la valanga, mi affretto a spostarmi prima che sia troppo vicina: ma questo non vuol dire scoprire e rimuovere le cause della valanga.
Per effettuare questo, è necessario un cambiamento da una strategia strettamente interventista a una più riflessiva e introspettiva che metta in luce le cause che alimentano il problema: è un lavoro più faticoso e a volte doloroso dato che rischia di mettere in discussione alcuni elementi fondamentali dell’organizzazione stessa.
Torneremo a spiegare meglio questi concetti quando parleremo in dettaglio di System Thinking.
La fissazione sugli eventi
Nel corso dell’evoluzione dell’uomo abbiamo sviluppato meccanismi che, almeno in epoca preistorica, ci hanno permesso di sopravvivere e di evolverci. Siamo stati addestrati dall’evoluzione a mettere a fuoco gli eventi che ci toccano direttamente per applicare una strategia reattiva che ci permettesse di sopravvivere: “uomo primitivo vede orso che si avvicina minaccioso… uomo primitivo scappa”.
Questa strategia purtroppo si mostra inadatta in un mondo come quello attuale, dominato da incertezza e complessità, dove è praticamente impossibile trovare una stretta consequenzialità negli eventi, fra cause e conseguenze. È come se volessimo focalizzare l’attenzione su un dettaglio di una scena, perdendo di vista il resto del panorama che magari potrebbe aiutarci a comprenderne meglio il quadro complessivo.
L’analisi puntuale di quello che ci accade intorno spesso ci impedisce di avere una visione a lungo termine dell’evoluzione del sistema o identificare meglio le cause di quello che ci accade intorno. Il meglio che possiamo fare è provare a immaginare quello che accadrà domani e agire di conseguenza senza però riuscire a imparare e a creare qualcosa di nuovo. Proattività e reazione, quindi, non innovazione.
La parabola della rana bollita
C’è una nota storiella introdotta da Noam Chomsky, in cui si immagina di mettere una rana a nuotare in un pentolone pieno d’acqua fredda. Accendendo il fuoco sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. In poco tempo l’acqua diventerà tiepida, ma la rana continuerà a nuotare trovando piacevole la mite temperatura dell’acqua. Dopo poco la temperatura sale e l’acqua diventa calda, più di quanto la rana trovi piacevole, ma ancora non reagisce. Passano i minuti e il fuoco sotto la pentola continua a scaldare l’acqua che adesso è diventata troppo calda per la rana che la trova molto sgradevole: purtroppo ormai si è indebolita e non ha la forza di reagire. Rimane immobile e non fa nulla. Dopo qualche minuto ormai la rana muore bollita nell’acqua calda.
Se la rana fosse venuta in contatto direttamente con una pentola di acqua bollente, probabilmente si sarebbe scottata ma sarebbe saltata fuori salvandosi.
Questa storia mostra che, quando un cambiamento viene introdotto in modo sufficientemente lento e graduale, sfugge alla percezione e non provoca spesso alcuna reazione od opposizione. La storia è spesso utilizzata per spiegare come la maggior parte delle persone resti indifferente di fronte ai cambiamenti se questi si paventano lentamente.
Il cambiamento lento e graduale rappresenta spesso un impedimento al processo di apprendimento. Il filtro che il nostro cervello applica di fatto è una forma di difesa per proteggersi dallo stress provocato dal continuo contatto con fattori di pericolo o che mettono in discussione le assunzioni consolidate fino a qualche momento prima. Se da un lato questo ci protegge, dall’altro rappresenta un limite per comprendere e imparare.
La disillusione dell’apprendimento dall’esperienza diretta
Ci è stato insegnato che la forma di apprendimento più potente ed efficace è quella che deriva dall’esperienza diretta. La maggior parte delle cose che facciamo abitualmente — camminare, mangiare, andare in bicicletta, nuotare — l’abbiamo imparata da piccoli semplicemente iniziando a farlo direttamente in prima persona.
Tipicamente siamo in grado di applicare il metodo sperimentale diretto quando le conseguenze delle nostre azioni si riflettono sul “qui e ora”. Ma quando un’azione si riflette in un altro tempo o altro luogo, cosa che accade quando ci muoviamo in un contesto complesso, è quasi impossibile imparare dall’esperienza. E questo porta a un paradosso: impariamo meglio dall’esperienza diretta ma, proprio quando servirebbe, non riusciamo a sperimentare direttamente. I cicli evolutivi sono spesso difficili da evidenziare perché sono lunghi e poco chiari.
La difficoltà di non vedere oltre l’orizzonte immediatamente percepibile spesso vieni imputata alle dimensioni — sistema troppo grande, cicli molto lunghi — spingendoci a scomporre il dominio: nascono le componenti aziendali, le divisioni e le aree. Come detto in precedenza, la scomposizione non ci aiuta a vedere meglio le cose, anzi: avviciniamo l’orizzonte oltre il quale non riusciamo a vedere. Di fatto si finisce per vedere ancora meno, pur avendo l’illusione di avere più controllo della situazione.
Il mito del management team
Un tipico errore che limita la nostra capacità di apprendere è quello di affidarsi al “management team” un gruppo di esperti e saggi manager riuniti insieme in rappresentanza dell’organizzazione. A loro viene demandato il compito di mettere ordine nella complessa rete di problematiche interdisciplinari e distribuite su più aree che sono critiche per l’organizzazione. Queste persone, verso le quali l’organizzazione demanda la gestione dei problemi, sono viste come il dream team dell’organizzazione: essi provengono da posizioni di rilievo nella scala gerarchia — o comunque sono figure ben in vista — e per questo hanno tutti gli occhi puntati addosso.
Questo approccio porta a creare uno staff di persone piuttosto distanti dalla realtà delle cose, le quali sono invece gestite da chi opera direttamente sul campo. A questo aggiungiamo che ogni membro più probabilmente trascorre buona parte del proprio tempo per portare avanti una sua lotta personale cercando di convincere gli altri della bontà delle proprie idee. Questo si traduce spesso nel perseguire strategie che sono frutto del compromesso delle varie linee di pensiero, in modo da non mettere in cattiva luce nessuno del team, nascondendo i conflitti dietro il paravento. E così si finisce per aumentare ulteriormente il distacco dalla realtà.
Spesso questi team di esperti tutto sommato funzionano bene nella gestione dei problemi di tutti i giorni, mentre vanno in crisi se sottoposti a stress e pressioni sul lungo periodo.
Quindi, che fare?
In questo articolo sulle organizzazioni che apprendono abbiamo affrontato alcuni degli errori tipici che si commettono e che ci impediscono di vedere le cose da un punto di vista più organico. Dalla prossima puntata inizieremo a entrare nel dettaglio del pensiero sistemico e di come questo possa aiutarci nel creare una organizzazione che apprende.
Riferimenti
[1] Peter Senge, La quinta disciplina. L’arte e la pratica dell’apprendimento organizzativo. Sperling & Kupfer, 1992
[2] Peter M. Senge, The Fifth Discipline: The art and practice of the learning organization. 2nd revised edition, Random House Business, 2006
[3] La seconda edizione, tradotta in italiano
https://editorialescientifica.it/prodotto/la-quinta-disciplina/