Eccoci giunti alla conclusione della serie: nei due precedenti articoli abbiamo visto vari utili consigli per chi svolge la funzione di facilitatore nell’ambito della retrospettiva. In questo articolo concludiamo la serie di consigli ai facilitatori con qualche altro suggerimento e affrontando soprattutto il tema della identità dello ScrumMaster per comprendere se si tratti di un membro del team di sviluppo o di un faciliatore.
La gestione del tempo
Mi è capitato di notare in svariati facilitatori di retrospettive un atteggiamento piuttosto caratteristico, ossia la mancanza di pazienza. Le retrospettive, però, sono situazioni in cui dovremmo promuovere creatitivà e riflessione, e queste attività necessitano di tempo: mettere le persone sotto pressione non è certo di aiuto.
Essere sotto pressione perchè manca tempo è una condizione che tende a bloccare la creatività: e non si tratta solo di un’impressione, ma esistono a tal proposito anche degli studi effettutati nell’ambito delle scienze cognitive e psicologiche. È questa la ragione per cui di solito tengo il mio timer ben lontano dalla stanza della retrospettiva: quando pongo al gruppo un limite temporale per svolgere un determinato compito, si tratta solo di un’indicazione sul tempo che mi aspetto sia necessario a loro per farlo. Non faccio partire alcun timer, ma mi metto invece a osservarli mentre lavorano: continuano a “produrre”? Hanno bisogno di un altro po’ di tempo? Oppure hanno già finito e possiamo fermarci prima di quanto pensassimo?
Quando il gruppo interagisce su un determinato compito, è anche possibile notare che arriva un punto in cui il volume medio nella stanza si abbassa significativamente: nella mia esperienza, questo è un segno che il gruppo ha sostanzialmente concluso di lavorare sul compito assegnato. In una situazione come questa è possibile anche “metterli sotto pressione” dicendo: “ancora due minuti e poi fine”. È un modo per dire loro di affrettarsi se hanno ancora qualcosa di chiarire prima di dichiarare conclusa l’attività; circa due minuti dopo – e anche qui non sto a usare il cronometro – interromperò l’attività per passare a quella successiva.
Nel mondo agile, dare tempi prestabiliti a certe attività (“timeboxing“) è pratica molto comune e ci sono buone ragioni per farlo; ma, nelle retrospettive, lavorare in maniera “time-boxed” è sicuramente dannoso.
D’altro canto, questo non significa che la retrospettiva si debba trascinare fino a sera, quando arriva il personale delle pulizie a cacciarvi dalla stanza perchè deve lavorarci: è responsabilità del facilitatore di gestire il tempo e fare in modo che tutto venga completato entro i tempi prestabiliti. Pertanto, anche se il team può in effetti fluttuare in un limbo senza tempo, il facilitatore deve invece essere ben consapevole del tempo ancora a disposizione e di quello che si può fare in quel tempo, pur senza farlo pesare al gruppo di lavoro.
Non abusare della pazienza del gruppo
Non è facile prevedere il momento esatto in cui il famoso “flusso creativo” si manifesterà nel gruppo, e quindi occorre a volte essere davvero pazienti. Quando si chiede al gruppo di svolgere un’attività o si pongono delle domande del tipo “solution-focused”, le persone potranno necessitare di tempo per arrivare a una risposta utile; e, specialmente nel caso in cui il facilitatore continui a chiedere “OK, e poi? Che altro?”, ci si troverà nella classica situazione in cui le risposte hanno bisogno di tempo per arrivare.
In questi casi, pur tenendo conto dei tempi nella nostra funzione di gestori del tempo, come facilitatori dovremo lasciare al gruppo il tempo per pensare e dovremo essere pazienti: aspettare, e aspettare ancora. Ed essere rilassati: ogni segno di nervosismo o di ansia, sarà percepito dalle persone e potrà rompere il loro flusso creativo.
Al tempo stesso, non si può però fare troppo affidamento sulla pazienza del gruppo: ho visto molti casi, e io stesso ho fatto questo errore, in cui il facilitatore “torturava” il gruppo su un’attività che si protraeva troppo a lungo, senza notare i segni di impazienza che arrivavano dalle persone. A parte il fatto che questo genererà un cattivo ROTI (si veda l’articolo precedente della serie), se ci si comporta in questo modo si finirà per rendere “indigeste” le retrospettive al gruppo, al quale questa pratica non piacerà più: sarà sempre più difficile in futuro coinvolgere in team nell’attività di retrospettiva.
Le azioni da intraprendere al termine della retrospettiva
Le retrospettive vengono fatte per individuare delle azioni su cui concordare e che intraprenderemo per migliorare il sistema. Ma, a volte, mettere troppa pressione sulla concretezza dei risultati potrebbe invece impedire a un team di raggiungerli! Sebbene possa sembrare contradditorio, invece succede spesso che un team non sia in grado di decidere su un determinato argomento, e le ragioni per questo possono essere svariate: magari ci sono ancora dei conflitti latenti che non consentono di arrivare a una soluzione comune, magari ci sono delle pressioni che derivano dal contesto esterno al gruppo di lavoro e così via. In casi come questi, costringere il gruppo a produrre concrete azioni da intraprendere alla fine della retrospettiva potrebbe causare da parte loro la produzione di risultati di bassa qualità oppure la messa a punto di elenchi di azioni che però poi non saranno mai intraprese realmente nel futuro.
Un facilitatore che si concentri sull’ottenere a tutti i costi alla fine della retrospettiva una serie di azioni da intraprendere, spesso finirà per ottenere meno risultati sul lungo termine, e in alcuni casi rischierà di danneggiare la coesione del gruppo e il suo livello di franchezza.
Quello che propongo, invece, è di spingere in maniera “sana”affinchè il gruppo produca delle azioni da intraprendere alla fine della retrospettiva, ma sempre con grande attenzione ai segnali che ci indicano una sua riluttanza a prendersi degli impegni. Quando questa resistenza si verifichi, il facilitatore dovrebbe rendere chiaro al gruppo che cosa sta accadendo, e chiedere al team quando potranno decidere sull’argomento e cosa dovrà accadere affinchè siano in grado di prendere tale decisione.
E quanto a lungo dovremo attendere prima che un gruppo si assuma la responsabilità del suo miglioramento continuo? Be’, in alcuni casi potrebbe essere necessario molto tempo, e potrebbero essere necessarie alcune esperienze dolorose nel percorso che porta a tale consapevolezza, ma alla fine la maggior parte dei team riesce a raggiungere questo traguardo. La domanda da porsi, comunque, è quanto si intende investire in un determinato team e se il risultato ottenuto sarà consono all’impegno profuso.
Le azioni da intraprendere… sono del gruppo, non del facilitatore
I risultati della retrospettiva appartengono al team. Non al facilitatore. Sebbene questo possa apparire logico, ho assistito a molti casi in cui non è andata così. Ci sono due fondamentali categorie per questo effetto:
1. Il facilitatore assume su di sè le azioni che che il gruppo ha deciso di intraprendere al termine della retrospettiva. Dal momento che spesso il facilitatore è anche lo ScrumMaster, si potrebbe arrivare alla situazione per cui tocca tutto a lui: è vero che uno dei compiti dello ScrumMaster consiste nel rimuovere gli impedimenti, ma, se si assume tutte le responsabilità, non siamo certo di fronte a un reale miglioramento di gruppo.
2. Il team non si sente realmente “proprietario” delle azioni da intraprendere: da parte dei membri del gruppo non c’è impegno, nè interesse nell’assumersi queste responsabilità. Di solito è possibile leggere questo atteggiamento in maniera piuttosto chiara nei volti dei partecipanti alla retrospettiva quando si chiede loro se si impegneranno a elaborare ciò che dalla retrospettiva è venuto fuori: in certi casi i segni non verbali sono estremamente chiari.
Non occorre dire che, se il team non si sente responsabile delle azioni da intraprendere come conseguenza della retrospettiva, non ci lavorerà sopra ed è pertanto di enorme importanza passarne la responsabilità proprio al team.
Posso sentire le obiezioni di alcuni manager che dicono: “Bene, ma se sto ad aspettare fino a quando i componenti del gruppo non si prendono la responsabilità di queste azioni, potrebbe anche accadere che non ci arrivino mai; e, in ogni caso, quanto danno potranno fare nel percorso?”. Certo, il fatto che tentiamo di rendere il team responsabile del miglioramento del processo e, in generale nel mondo agile, dell’auto-organizzazione interna al gruppo significa che potrebbe succedere anche che a questi obiettivi non si arrivi mai o che ci si arrivi con molti errori lungo il percorso.
Ciò nonostante, questo percorso di apprendimento è il dono più importante che un manager può fare al proprio gruppo di lavoro: occorre lasciarli crescere, creare un ambiente in cui sia possibile sbagliare con un un certo margine di sicurezza, e il gruppo imparerà il modo in cui aggiungere molto più valore al processo di quanto sarebbe possibile al solo manager!
Consigli di facilitazione
Non si tratta di voi! La retrospettiva non è del facilitatore
Mi piace pensare alla retrospettiva come a una opera d’arte: in tal senso lo ScrumMaster deve imparare un po’ a essere un artista. Dal momento che la riunione è totalmente nelle mani del facilitatore, diventa spesso facile pensare che la retrospettiva sia qualcosa che riguardi il facilitatore. Ma non è così! Fornire una struttura in cui far funzionare il processo per la retrospettiva è molto differente da essere la “stella” dell’incontro. Il nostro ruolo come facilitatore è di fornire una struttura ma di rimanere fuori dalla scena lasciando il palcoscenico al team.
Esistono dei segnali tipici che indicano un “dirottamento” della retrospettiva da parte del facilitatore. Vediamo di seguito:
- il facilitatore parla più di chiunque altro quando in realtà il facilitatore dovrebbe parlare meno degli altri e sostanzialmente solo per spiegare e introdurre le varie attività;
- il facilitatore parla con il gruppo riguardo al contenuto di un determinato argomento quando invece il compito del facilitatore è di gestire la struttura della retrospettiva e le modalità cui vengono dette le cose, ma non il contenuto specifico degli argomenti trattati;
- le persone del gruppo tendono a rispondere al facilitatore invece di parlare fra di loro;
- spesso sembra che i componenti del gruppo necessitino del permesso da parte del facilitatore per dire qualcosa, come se si trattasse del loro manager;
- le attività del facilitatore rallentano il processo del team, per esempio perchè il suo lavoro di visualizzazione è così lento che il team resta fermo mentre aspetta che il facilitatore arrivi al dunque.
In ogni caso, occorre sempre essere consapevoli del fatto che i protagonisti dello “spettacolo” sono i componenti del gruppo e non il facilitatore: tutte le cose che accadono devono essere nel loro interesse. Se, come facilitatori, diventiamo un ostacolo al processo… meglio togliersi di torno e lasciarli lavorare!
Rendere evidente il cambiamento di ruolo
Quello di facilitatore è il ruolo che si ha quando si sta moderando una retrospettiva. Ma, in alcuni casi, come quando occorra sbloccare delle situazioni inchiodate per motivi tecnici o di mancanza di conoscenza all’interno del gruppo, il facilitatore potrebbe anche cambiare ruolo, passando a svolgere la funzione di formatore o di consulente. Ecco, ritengo che sia molto importante marcare questo cambiamento di ruolo in maniera che sia molto esplicito. Si può fare con una sorta di “rituale“, dei quali uno tra i più comuni consiste nel “cambiare cappello“: “e adesso per un po’ di tempo metto da parte il mio cappello da facilitatore, e indosso quello di consulente tecnico”, magari accompagnando questa frase proprio con dei gesti evidenti che mimano il cambio di questi immaginari cappelli.
Questo tipo di rituale che rende evidente il cambiamento di ruolo aiuterà il gruppo a capire quello che state facendo e la funzione che in quel momento state svolgendo. Tanto per fare alcuni esempi, come detto, potreste mimare il movimento dello scambio dei cappelli e dire: “adesso metto da parte per un minuto il mio cappello da facilitatore e indosso quello…
- …da coach. Quali altre opzioni puoi trovare per questa situazione?”
- …da manager. Come reagirei se sentissi i tuoi commenti?”
- …da responsabile del marketing. Come sarei in grado di spiegare la vostra decisione al cliente?”
- e così via.
Un altro modo per marcare questo cambiamento di ruolo – alternativo o complementare al “cambio di cappello” appena visto – consiste nello stabilire un significato per la posizione che si occupa nella stanza, come ulteriore segnale del ruolo che si sta impersonando in quel momento: per esempio, quando si è nella parte sinistra della stanza, si è nella zona del facilitatore; quando si è a destra, si sta svolgendo la funzione di coach; quando ci si siede su una sedia in un angolo, si sta svolgendo il ruolo di osservatore.
Ascolto in “full immersion”
Una delle competenze chiave quando si svolge il compito di facilitatore in una riunione consiste nella capacità di ascoltare. E si tratta di ascoltare non solo le parole, ma anche il modo in cui vengono dette e il tipo di impatto che esse possono avere sul gruppo.
Probabilmente il concetto maggiormente conosciuto al riguardo è quello del cosiddetto “ascolto attivo“, vale a dire dare feedback a chi parla sul fatto che si è compreso quello che è appena stato detto: e questi segnali di comprensione possono essere rappresentati da reazioni sia di tipo verbale che di tipo non verbale. Guardate che questa è una cosa veramente importante da fare: dare sempre feedback alle persone che ci stanno parlando, e non solo nei momenti in cui svolgiamo il ruolo di facilitatore!
Oltre a questo, comunque, suggerisco un ulteriore aspetto dell’ascolto che è molto importante: imparare a comprendere in che modo le parole dette da qualcuno abbiano un impatto proprio su di noi. Potete provare con questa tecnica:
- Sedetevi comodamente e state rilassati.
- Chiedete a qualcuno di dirvi una frase, ripetendola alcune volte se necessario.
- Ascoltate il vostro corpo: come vi sentite? Che cosa provate? In che modo qualcosa sta cambiando? E dove?
Quello che probabilmente scoprirete è che esiste un secondo livello di ascolto che non è cognitivo. Come esseri umani, infatti, ascoltiamo con tutto il nostro corpo anche se poi in genere non ne siamo consapevoli: le parole sono percepite anche come sentimenti caldi o freddi, come vibrazioni, come tensioni muscolari che si manifestano in diverse parti del corpo (il petto, le braccia, la pancia…).
Ciascuno di noi reagisce diversamente ai messaggi, quindi il modo in cui io “sento” quello che mi dice una persona sarà sicuramente diverso dal modo in cui lo “sente” qualcun altro; ma un prendere il modo in cui ciascuno di noi percepisce un messaggio ci consentirà di comprendere le nostre reazioni al messaggio e di percepire meglio le sfumature impiegate dalle persone per comunicare.
Per capire ancor meglio si può continuare l’esercizio precedente nel modo che ora descriviamo.
- Chiedete all’altra persona di dire una stessa frase ma pensandola in situazioni felici o tristi.
- Ascoltate con il corpo.
- Controllate come la stessa frase abbia effetti differenti su di voi in base al modo in cui viene detta!
Questo concetto è stato messo a punto da Alfred Korzybski che lo ha definito “reazione semantica“. Questo autore ha discusso il modo in cui si esplicano le nostre reazioni a quanto ci viene detto, scoprendo che reagiamo a ciò che oggettivamente rappresenta il contenuto della frase, ma anche che produciamo reazioni legate ai segnali non verbali che accompagnano le parole e ai significati che siamo noi ad attribuire alle parole a causa di ciò che attivano in noi da un punto di vista semiotico, sintattico e semantico.
Praticare l’ascolto con tutto il corpo, pertanto, diventa una risorsa importante per il facilitatore dal momento che gli consente di percepire alcuni dettagli dei messaggi non verbali che potrebbero indicare punti da tenere in considerazione quando sceglieremo il modo in cui agire. Spesso le retrospettive sono caratterizzate da conflitti latenti: i partecipanti si stanno mandando messaggi “nascosti” l’un l’altro e la nostra capacità di percepire che qualcosa non sta andando bene è di importanza capitale.
Ruoli in conflitto: lo ScrumMaster è il facilitatore o è un membro del team?
C’è un problema tipico intrinseco nel modo in cui è implementato il ruolo di ScrumMaster: come deve comportarsi durante la retrospettiva? Uno ScrumMaster a tempo pieno e che fa solo quello è chiaramente un facilitatore; ma nella realtà, la maggior parte degli ScrumMaster spesso lavorano anche come sviluppatori all’interno del team.
E allora, se siamo degli ScrumMaster part–time, qual è il nostro ruolo? Nella retrospettiva svolgiamo funzione di facilitazione, ma possiamo anche fornire dei contenuti alla discussione? E se sì, in che misura? Alcuni ScrumMaster addirittura hanno paura a fornire contenuti poichè si immedesimano particolarmente nel ruolo di facilitatore. Altri invece considerano primario il loro ruolo di programmatore e stanno maggiormente nei panni dello sviluppatore, arrivando in alcuni casi a dimenticare che nella retrospettiva svolgono il ruolo di facilitatore.
Anche in questo caso non ci sono delle regole fisse, ma il modo di comportarsi viene dettato sostanzialmente dal contesto. Esistono comunque delle linee guida generali che riportiamo di seguito.
Se lo ScrumMaster è il protagonista della riunione, vuol dire che si sta sbagliando
In qualità di ScrumMaster si è responsabili della crescita del proprio team, con l’obiettivo di rendere tutti i componenti capaci di prendere il maggior numero possibile di decisioni sensate riguardo al lavoro che si sta svolgendo. Occorre pertanto dare spazio alle persone.
D’altro canto però, lo ScrumMaster ha il diritto di esplicitare le proprie idee: se il team assume la guida della situazione, questo va molto bene; ma se non vogliono discutere quello che lo ScrumMaster propone… be’, occorre agire con risolutezza seppur senza drammatizzazioni, magari rimandando a un momento successivo la discussione, tranne nei casi in cui evitare di discutere subito del problema potrebbe mettere in pericolo il lavoro che si sta svolgendo o la struttura presso cui stiamo lavorando. In genere la strategia migliore è quella di affrontare l’argomento formulando proposte, inviti e poi lasciando che il team decida se vogliono o meno seguirvi.
Anche quando rifiutino la vostra idea, non significa che essa sia dimenticata per sempre: magari rimarrà sospesa da qualche parte e poi verrà usata a un certo punto proprio dal team che inizialmente l’aveva rifiutata. Personalmente mi è capitato di rimanere sorpreso più volte dal fatto che alcune osservazioni, alcuni commenti e alcune idee che avevo proposto sono state comunque utilizzate dai gruppi di lavoro anche senza che se ne rendessero conto, almeno fino a un momento molto avanzato del processo in cui hanno preso consapevolezza di questo fatto.
Fare il facilitatore nelle retrospettive degli altri
Un altro metodo per imparare affare le retrospettive è di svolgere il ruolo di facilitatore all’interno delle retrospettive di un team di sviluppo del quale non si fa parte: all’inizio questo potrebbe sembrare complicato, ma poi ci si rende conto di quanto in realtà ciò sia più semplice.
Certo, può darsi il caso in cui probabilmente non si capirà molto degli argomenti di cui stanno parlando i membri del team in retrospettiva; ma questo va vista più come una risorsa che come un peso: non sarà necessario prendere parte alla discussione per quanto riguarda gli argomenti specifici, ma ci si potrà focalizzare sul processo, e comprendere quel che è importante per le persone semplicemente da una prospettiva incentrata sulle dinamiche di gruppo.
In qualità di facilitatore esterno, inoltre, non ci si trova in quella situazione di doppio ruolo “ScrumMaster vs. sviluppatore del team” in cui ci si verrebbe a trovare invece svolgendo la facilitazione per il nostro team: e questa è un’esperienza davvero liberatoria!
Ritengo che svolgere il ruolo di facilitatore in una retrospettiva nella quale non si è coinvolti dal punto di vista dei contenuti rappresenti una grande opportunità di apprendimento, specie se c’è anche qualcuno in grado di fornirci del feedback di buona qualità.
Conclusioni
Siamo giunti al termine di questa lunga serie in cui abbiamo affrontato diffusamente la retrospettiva per i team di sviluppo agile. Si tratta di un potente strumento, troppo spesso sottovalutato, trascurato o, peggio, mal compreso nelle sue potenzialità e nelle sue sfumature. Abbiamo trattato molti aspetti, relativi a dinamiche di gruppo e gestione del cambiamento, illustrando diverse tipologie di retrospettive (solution–focused, basate su metafore etc.), presentando le tecniche e gli strumenti più utilizzati, e vedendoli poi in azione tramite l’utilizzo di esempi reali presi dal lavoro quotidiano di coaching su progetto.
Ci auguriamo, che nei lettori interessati al tema, queste pagine abbiano contribuito a fornire uno sguardo di insieme e a suggerire spunti per l’approfondimento.