Venezia, il business e l’Agile
Nel panorama ormai affollato delle “conferenze agili”, c’era bisogno di un nuovo evento? A giudizio degli organizzatori, evidentemente si, poiché dedizione e impegno non sono mancati per realizzare il primo Agile Business Day [1] che si è svolto a Venezia sabato 17 settembre scorso.
La cornice veneziana in una luminosa giornata di fine estate, il campus dell’Università Ca’ Foscari, il lavoro dei volontari dello staff — si è trattato di un evento gratuito — e una buona presenza di pubblico interessato hanno contribuito alla buona riuscita della conferenza.
L’intento dichiarato da parte dell’organizzazione era quello di realizzare una giornata in cui le esperienze legate ai principi e alle metodologie Lean e Agile fossero proposte anzitutto a manager e professionisti provenienti dalle aziende di una certa strutturazione, da quelle medie a “giganti” multinazionali, dal mondo bancario/finanziario, dalle pubbliche amministrazioni.
Lean e Agile, infatti, rischiano di essere erroneamente percepiti come qualcosa di adatto solo a un mondo di startup o microaziende del comparto sviluppo software, quando invece è chiaramente in atto una vera e propria “rivoluzione” che sta a poco a poco trasferendo questo paradigma anche in aziende di carattere Enterprise.
La strutturazione della conferenza
Non è certamente mancata la possibilità di scelta visto l’ampio menù di opzioni preparato dall’organizzazione. Oltre a un keynote plenario alla mattina e a uno a inizio pomeriggio, infatti il programma era suddiviso in tre aule per le presentazioni frontali, ciascuna delle quali ha ospitato tre talk al mattino e tre al pomeriggio, più tre aule workshop, ciascuna delle quali ha ospitato un workshop al mattino e uno alla sera.
Al fine di non affaticare i nostri lettori — che devono risparmiare le energie per leggere anche gli articoli dello speciale sui venti anni di MokaByte — i conti li facciamo noi: sono la bellezza di 2 keynote, 18 presentazioni e 6 workshop nel corso di una giornata. Volendo fare una critica costruttiva all’organizzazione si tratta proprio di questa: se da un lato l’ampia “offerta formativa” di sicuro non ha deluso le aspettative di chi cercava argomenti anche non usuali, dall’altro le attività sono state troppe e hanno in molti casi frammentato eccessivamente la presenza nei vari talk e/o workshop.
Cosa abbiamo visto
Come abbiamo scritto fino alla noia nei tanti resoconti di conferenze cui abbiamo partecipato negli ultimi anni, non è possibile seguire tutto e occorre fare delle necessarie rinunce. I video di alcuni degli interventi sono comunque stati caricati su YouTube e i materiali dei diversi speaker sono disponibili nelle pagine del programma sul sito ufficiale dell’evento [1].
Racconti dal basso…
Dovendo dare conto di ciò a cui abbiamo assistito, ricorriamo a una definizione che un tempo veniva usata moltissimo nelle conferenze di tipo “tecnico” quando si raccontavano le esperienze vissute su un determinato progetto software, utilizzando le tecnologie più innovative ma anche meno documentate o più difficili da usare. In quegli anni, e parliamo di circa un decennio fa o anche meno, andava molto di moda l’espressione “From the trenches”: ogni racconto di un’esperienza vissuta con l’applicazione di qualche tecnologia a un progetto era un racconto “dalle trincee”. In questo Agile Business Day non sono mancati proprio degli interventi “dalle trincee” vale a dire delle narrazioni, peraltro a volte davvero interessanti, delle esperienze vissute in prima persona dai relatori nell’ambito della applicazione di metodologie Agile e del confronto con la realtà aziendale.
…e sintesi dall’alto
Accanto a questi interventi “dal basso” si sono affiancati degli speech che hanno “volato alto” tentando un’opera di sintesi e di “ispirazione” per la nuova fase che si vive nel panorama Lean/Agile: certi valori, certi principi, certe pratiche non sono più argomenti “carbonari”, riservati a un pubblico di innovatori, appassionato ma limitato e seminascosto; però non sono ancora una cultura diffusa e applicata nelle aziende, specie di grande dimensione, né tantomeno, nella pubblica amministrazione. Siamo, insomma al passaggio dall’underground al mainstream con tutte le opportunità e i rischi che ciò comporta: qualcuno parla di “terza ondata” dell’Agile…
Il valore delle conferenze
Dividendoli — un po’ artificiosamente — tra esperienze “dallle trincee” e tentativi di sintesi, vi raccontiamo brevemente di seguito alcuni degli interventi cui abbiamo assistito, ricordando però che un resoconto non sostituisce la presenza reale a situazioni come queste in cui, al di là dei momenti strutturati, sono anche quelli non strutturati, come il pranzo, le pause e così via a creare occasioni di confronto, di scambio di idee, di creazione o consolidamento di rapporti professionali e personali.
From the trenches
Ecco una serie di interventi che hanno riportato esperienze vissute in azienda: anche se spesso molti temi toccati sono ritornati costantemente, ci sono stati alcuni aspetti, alcuni dettagli che hanno fornito ottimo materiale per la riflessione.
Domenico Barra. Scrum e metodi Agile in una software factory a trazione ibrida
Si è trattato di un intervento piuttosto discorsivo [2] e dall’approccio “laico”: più che stare a proporre in maniera prescrittiva determinate pratiche, Domenico Barra ha raccontato quello che succede in contesti anche differenti partendo dalla sua esperienza in una software factory che lavora sia per produrre strumenti a uso interno, che per realizzare soluzioni in aziende esterne. Si tratta oltretutto di un’azienda che ha tre sedi separate in Italia, e che quindi deve considerare anche le difficoltà derivanti dal decentramento, e affrontarle in maniera positiva
Al di là di alcune considerazioni piuttosto comuni, quali quella sulla assoluta centralità del Product Owner, ci sono state delle riflessioni che hanno particolarmente interessato i presenti. Una delle prime ha fatto riferimento alla dimensione delle aziende tentando di sfatare il luogo comune per cui nelle aziende piccole e facile “fare agile”, mentre in quelle grandi diventa più difficile se non addirittura impossibile. In realtà, secondo l’esperienza del relatore, questa è una verità in svariati casi ma non sempre è così e anzi ha avuto esperienze di tipo diverso.
Un altro punto ha riguardato la presentazione di una sorta di “contromanifesto” dei principi agili: in breve, così come esistono le quattro proposizioni e i dodici principi del Manifesto Agile, può esistere anche una sorta di elenco di valori e principi “al contrario”, che negano quelli del manifesto, e che certificano il fallimento di un progetto di adozione di Agile.
Nell’opinione dello speaker, già venir meno a una sola delle quattro fondamentali affermazioni del Manifesto rischia di far fallire l’adozione delle metodologie; non parliamo poi delle situazioni in cui addirittura più di uno di tali principi viene negato da chi invece dovrebbe adottarlo. Nei casi in cui ci si rende conto che per una azienda, in quel momento, l’adozione di metodologie agili è impossibile, la si “dirotta” verso metodi tradizionali, con tutto quello che ciò comporta.
Interessante poi l’analisi di alcuni dettagli organizzativi quali la composizione dei team, e la durata degli sprint. Sul primo aspetto, il team che lavora sullo sviluppo è composto da:
- 1 esperto UX
- 1 esperto web/frontend
- 2 esperti di backend
Ma, accanto al o ai team di sviluppo, ci sono due team trasversali: il team di supporto si occupa di preparare le macchine, installare il software e i container, curare Docker e così via; il team di ricerca, invece, frequenta forum e blog, legge e si informa su nuove tecnologie e nuove tendenze, sperimenta soluzioni non standard per capire dove vanno le innovazioni.
Un talk lineare e onesto, basato sulle esperienze.
Michele Budri. Back to the future: the Agile human transformation
Altro contributo che ha raccontato un’esperienza from the trenches è stato quello di Michele Budri [3] [4]. Si è trattato di una sorta di “retrospettiva”, incentrata sul rapporto tra evoluzione del team su un progetto, adozione delle metodologie agili, individuazione e raffinamento degli strumenti tecnici necessari a gestire il processo. Tale racconto prende come metafora quella degli Avengers, suggerendo come, in definitiva, le persone “normali” possano diventare dei ”supereroi” se dotate degli strumenti giusti e collocate in un contesto collaborativo e dotato di visione condivisa.
In breve, il caso di esempio a cui si è fatto riferimento era quello del rifacimento del portale dei bandi della Regione Veneto, con tutti gli elementi di vincolo — normative, documentazione obbligatoria, conformità a standard — che si portano dietro i progetti legati alla Pubblica Amministrazione. Occorreva trasferire al team le conoscenze e capacità necessarie per portare a termine con successo tale processo.
Rifacendosi al Ciclo di Tuckman e alle quattro fasi in cui esso suddivide le dinamiche della nascita e dello sviluppo di un gruppo (forming, storming, norming, performing), il relatore ha percorso a ritroso le varie fasi che hanno portato il gruppo di lavoro da una situazione di relativa inconsapevolezza, alla adozione proficua del metodo Scrum accompagnato da una serie di strumenti appositamente realizzati per gestire meglio i vincoli e le richieste presenti in questo progetto. In questo senso è risultata piuttosto interessante la correlazione fra fasi della dinamica del gruppo e adozione/raffinamento di determinati strumenti; per esempio si è visto come la classica lavagna a supporto delle attività si sia evoluta con il passare del tempo in base alle esigenze del lavoro, ma anche alla consapevolezza acquisita da parte di chi la usava. Stesso dicasi per quanto riguarda l’adozione o l’abbandono di certi strumenti “pratici” quali particolari fogli di calcolo, o JIRA, tool per i test e il versioning etc. Ma si sbaglierebbe a pensare che si sia trattato solo di un problema di strumenti e metodi: alla base della trasformazione umana di cui parla il titolo c’è stata la necessaria comprensione delle proposizioni e dei principi del Manifesto Agile.
Chiaramente non si è trattato di un processo lineare e senza intoppi: come è normale in situazioni di questo tipo, ci sono state anche difficoltà, momentanei passi indietro e così via. Ma una considerazione particolarmente interessante è stata quella che ha messo in correlazione il tempo e l’entusiasmo, fattore quest’ultimo da non sottovalutare ma che, visto il suo naturale andamento “sinusoidale”, va sempre adeguatamente sostenuto con gli strumenti più adatti.
Alberto Brandolini. Reshaping Enterprise Software
Anche se non sono certo mancati i riferimenti a una visione d’insieme più ampia e riflessiva, vogliamo collocare l’intervento di Alberto Brandolini [5] [6] nel gruppo di quelli che arrivano “dalle trincee”. Il motivo è presto detto: le considerazioni da cui si parte e le soluzioni che vengono proposte sono molto attinenti a una realtà aziendale vissuta in diretta da dentro.
È infatti chiaro come sia il racconto di una serie di esperienze dirette uno dei punti cardine di tutto il talk: quello che accade nelle aziende è che, a fronte della necessità positiva di migliorare il core del sistema, in realtà spesso si finisce per apportare miglioramenti e ottimizzazioni locali che, nel migliore dei casi servono a poco, nel peggiore diventano addirittura controproducenti. L’illusione che affidarsi all’esperto di dominio rappresenti la soluzione vincente ha portato in molti casi solo alla creazione o al rafforzamento di una struttura a silos, mancante di una reale comprensione del quadro globale.
Fortunatamente, non mancano gli strumenti teorici e pratici per affrontare tali situazioni e cercare di risolverle in modo proficuo. Anzitutto è fondamentale riconoscere l’importanza dell’apprendimento per tutto il processo di sviluppo: la conoscenza collaborativa è il modo per tentare di capire in fretta e in maniera più ampia il sistema su cui si sta operando.
Strumenti come lo Impact Mapping o lo Event storming — nel quale le persone aggiungono su una linea temporale la loro parte di conoscenza, creando un’immagine più realistica e attendibile del sistema — rappresentano in tal senso un deciso passo avanti rispetto ai ”famigerati” esperti di dominio.
Se è vero che occorre puntare alla autoorganizzazione come chiave per avere team più capaci e più aderenti alle esigenze del progetto, si deve comprendere che ci si può autoorganizzare solo se si è compreso veramente il sistema sul quale si va poi a lavorare.
Mettere insieme le persone favorisce la crescita della conoscenza ed Event Storming è in tal senso una piattaforma per l’autoorganizzazione collaborativa.
Fabio Ghislandi. I manager che ho incontrato
Stesso discorso fatto poco sopra vale anche per la riflessione di Fabio Ghislandi dedicata agli stili di leadership dei vari manager incontrati all’interno delle aziende nel suo ruolo di coach agile [7] [8]: da un lato si è trattato di una sintesi ad alto livello di astrazione ma, dall’altro il ragionamento affonda le sue radici pienamente in una casistica molto reale e legata all’esperienza diretta sul campo.
Attraverso l’utilizzo di vere e proprie personas che incarnano personaggi realistici, il talk ha sintetizzato cinque tipologie di manager e il loro approccio all’adozione di Agile nelle rispettive realtà aziendali, consentendo poi una serie di riflessioni sugli stili di leadership che tali figure incarnano e rappresentano. A corredo dei vari personaggi c’è una breve ma significativa frase che sintetizza il loro modo di fare. I cinque “ritratti” sono:
- Caterina, CTO di piccola azienda: “vorrei, ma non è possibile”;
- Alfonso, responsabile metodi di grande azienda pubblica: “devo, ma non voglio”;
- Tommaso, direttore sviluppo di una media azienda in crisi: “armiamoci e partite!”;
- Luca, CTO di grande azienda: “sono un supporter, contate su di me”;
- Antonella, CEO di piccola azienda: “sterilizziamo tutto”.
Come appare chiaro, questi ritratti hanno il merito di rappresentare situazioni e approcci piuttosto comuni: dall’ultimo caso in cui si tenta una sperimentazione di adozione agile, purché essa non vada effettivamente a impattare sulla realtà, a situazioni in cui tutto sommato si tiene a debita distanza l’agilizzazione del contesto.
Partendo dalla presa d’atto di queste tipologie di comportamento, Fabio Ghislandi ha presentato diversi modelli di leadership presenti in letteratura che i diversi autori hanno definito, identificandone caratteristiche e applicazione.
Anzitutto va ricordato che proprio Taiichi Ōno, il fondatore della produzione lean alla Toyota, fu tra i primi a proporre uno stile di di leadership basata sul “dare l’esempio” in cui i manager non si limitavano a indicare ciò che andava fatto ma erano i primi a farlo. Da qui in poi, però, si sono sviluppati diversi approcci di cui nel talk viene data una veloce ma chiara illustrazione.
La leadership situazionale (Blanchard – Hersey 1985) è quella in cui lo stile dei manager si adatta e cambia in funzione della maturità professionale e psicologica dei collaboratori: a seconda della situazione, cambierà anche l’insieme dei comportamenti del manager, passando dalla direzione all’addestramento al sostegno fino alla delega.
La servant leadership (Greenleaf 1970) costituisce un approccio per cui il manager si mette a servizio del gruppo, creando le condizioni affinché sia prodotto valore. È importante la comunicazione che deve riuscire a trasmettere una visione d’insieme al componenti della squadra.
Un passo ulteriore è rappresentato dalla cosiddetta host leadership (McKergow – Bailey 2013): la metafora è quella del padrone di casa che ospita un ricevimento e che deve occuparsi di tutti gli aspetti fondamentali affinché tale festa riesca nel modo migliore. Dovrà quindi preparare tutto il necessario per gli ospiti — da cibo e bevande all’arredo, dagli inviti alle indicazioni per raggiungere il luogo deputato — fare le presentazioni tra coloro che non si conoscono, richiamare l’attenzione per comunicare informazioni importanti, intervenire nel caso ci siano comportamenti inadeguati che disturbano gli invitati, ma anche “scomparire” in certi momenti dall’orizzonte della festa per lasciare che gli invitati si divertano e si sentano a loro agio in libertà.
È chiaro come questi modelli, e in particolare l’ultimo, rappresentino degli approcci in grado di favorire un percorso evolutivo “sano” per il gruppo e per l’azienda. Ma è anche chiaro che un manager che voglia applicare uno stile come quello della host leadership debba essere in prima persona dotato della sufficiente maturità psicologica e professionale e debba possedere alcune doti tra le quali spicca la cosiddetta intelligenza emotiva (Goleman 1995): la capacità di capire i sentimenti degli altri al di là delle parole, la qualità di riconoscere le emozioni proprie e altrui e guidarle nelle direzioni più vantaggiose per tutti.
In definitiva, alla base di una leadership positiva e proficua c’è la capacità di gestione delle relazioni,che si estrinseca nel comprendere la situazione sociale, saper organizzare gruppi, creare legami personali.
Keynotes e quant’altro
Come già detto, ci sono stati degli interventi che che hanno inteso fornire una sintesi e/o una “ispirazione” a riguardo di tematiche più o meno generali. Tra questi, annoveriamo sicuramente i due keynote che altri speech di portata meno ampia e generale, ma ricchi comunque di spunti per altri motivi.
Massimo Messina. Working agile for digital innovation
Massimo Messina è a capo della global ICT di un grande gruppo bancario e ha proposto una riflessione lunga e strutturata [9] sullo stato attuale dell’adozione di Agile nelle grandi aziende, su quali ne siano i limiti e le prospettive e sulle ragioni per cui, in definitiva, siamo allo stato delle cose in cui ci troviamo.
Uno dei meriti di questo keynote del mattino è stato di prendere in considerazione diversi aspetti della questione: dalle ragioni “storiche” per cui si è giunti a una rigidità e a una burocratizzazione delle organizzazioni e delle aziende, agli elementi anche tecnologici e architetturali che abbiamo a disposizione per favorire la transizione in senso agile, fino alla proposta di un modello organizzativo — che ricorda dichiaratamente in vari punti il sistema Holacracy pur distaccandosene per alcuni aspetti fondamentali — in grado di adattarsi alle aziende di grande dimensione.
Rimandando al video dell’intervento [10], da cui è possibile seguire l’intero percorso del ragionamento, tentiamo qui di dare una breve sintesi degli argomenti trattati.
L’inizio e le conlcusioni del discorso sono piuttosto semplici: la trasformazione in senso agile è anzitutto un fatto di cultura aziendale, che nasce dall’organizzazione e che non può essere imposta con un approccio integralista alle metodologie Agile. È necessario essere ben consapevoli dei motivi storici e sociologici che hanno portato le aziende a dare più importanza agli asset rispetto a quella che viene data alle persone: solo così si può intervenire in modo proficuo partendo dalla sicurezza che, per implementare questi nuovi modelli organizzativi, abbiamo oggi gli strumenti anche a livello tecnologico e architetturale, rappresentati da container e microservices. Il sistema organizzativo proposto — in grado di integrare l’aspetto “asset” caro alle aziene e l’aspetto “people” propugnato dal movimento agile — è basato su una metafora di organizzazione comunitaria del territorio, con dei “borghi” che si federano in “contee”, le quali a loro volta eleggono dei “delegati” a partire da “cerchie” rappresentative dei borghi, e questi delegati si ritrovano in un “club”.
In un panorama sempre più difficile per molteplici ragioni, in cui occorre conciliare la qualità del prodotto digitale con la velocità del mercato, un tale cambiamento di paradigma risulta più una necessità che una opzione per le grandi aziende.
Andrea Provaglio. Managers, complexity and Agile
Dopo il pranzo all’aperto, momento conviviale ben riuscito, il rientro in aula ha visto Andrea Provaglio alle prese con il keynote del pomeriggio [11] [12] che ha, da un lato, fornito un quadro “riassuntivo” di ciò che è accaduto ai modelli produttivi nell’ultimo secolo e dall’altro ha fornito una prospettiva su ciò che l’Agile sarà nei prossimi anni.
La riflessione è partita con la presa d’atto che viviamo nell’epoca della cosiddetta economia della creatività. Nella società preindustriale, c’era una sostanziale unità fra chi pensava il prodotto e chi lo realizzava, vale a dire l’artigiano. Con l’affermazione definitiva dell’industrializzazione nell’Ottocento e con la sua crescita esponenziale nel secolo scorso, i ruoli di chi pensava il prodotto e di chi lo faceva si erano drasticamente slegati. Nell’economia attuale, sempre più le due funzioni stanno tornando insieme, ma non è un ritorno al passato preindustriale, bensì un salto in avanti verso uno scenario di complessità. Modelli interpretativi come Cynefin ci aiutano a comprendere e a gestire tale complessità per quanto ciò sia possibile solo in modo non deterministico.
Sono questi scenari complessi quelli con cui dobbiamo fare i conti nel panorama attuale: i mercati sono sistemi complessi e abbiamo già esempi di approcci “agili” alla gestione di tali fenomeni, come accade ad esempio con il mondo della discografia attuale, ormai quasi completamente slegato dal supporto fisico, secondo un paradigma già individuato dal cosiddetto Lean Product Development.
Di fatto si corre il rischio di non rendersi conto che anche l’Agile diventa vecchio: e ciò accade per diverse ragioni, a partire dal fatto che le sue radici affondano pienamente nel secolo precedente, anche se la formulazione del manifesto Agile si concretizza proprio all’inizio del XXI secolo; aggiungiamo a questo una potenziale ”rigidità” quando lo si concepisca come legato esclusivamente al mondo dello sviluppo software e abbiamo un quadro per cui anche l’Agile rischia un processo di invecchiamento. Ma Agile è di più e altro: non è solo processo di sviluppo software ma può essere applicato al campo delle risorse umane, al marketing, alla produzione editoriale e di contenuti e così via.
Dovendo descrivere ciò che oggi è Agile, si potrebbero mettere in luce tre componenti fondamentali: flow, complexity, people. Il flusso è ciò che ha a che fare con la comprensione, la visualizzazione e la consegna di valore. La complessità è ciò che ha a che fare con l’esplorazione, la sperimentazione, l’apprendimento spesso di realtà che ancora non conosciamo pienamente. E, infine, le persone sono rilevanti per quanto riguarda l’organizzazione, l’intelligenza collettiva e numerosi altri aspetti su cui per decenni le aziende non si sono focalizzate, ma che invece risultano cruciali e richiedono strutture organizzative non convenzionali.
Guardando in prospettiva, occorre creare una cultura nuova che sia basata su convinzioni condivise e interiorizzate. La conclusione è che necessita il coraggio di mettersi in discussione, di decidere anche prima di aver capito tutto, di abbracciare una mentalità orientata alla complessità e di adottare uno stile di leadership moderno e innovativo.
Felice Pescatore. Management 3.0: management art in today’s turbulent world
Con una presentazione molto lineare, Felice Pescatore [13] ha illustrato i principi deldi Management 3.0 di Appelo, sottolineando una visione olistica che tenga sempre in considerazione le complessità inerenti al mondo del business attuale.
dopo una introduzione dedicata alla complessità — tema ricorrente in molti degli interventi di tutta la giornata, a dimostrazione dell’importanza che questo aspetto ricopre in una moderna visione del business — il relatore ha presentato i sette aspetti cui un’azienda deve focalizzarsi, sottolineando come essi non vadano scomposti in modo disgregato, ma vadano intesi in maniera correlata all’interno di una visione globale.
Un primo aspetto è costituito dalle persone: occorre prendere atto che esse sono mosse ed energizzante più da desideri intrinseci che non da stimoli esterni. E per questo che la motivazione va fatta nascere da una condivisione di obiettivi piuttosto che dall’ imposizione di spinte esterne.
Il secondo aspetto è rappresentato dal team, cui deve essere garantita libertà e autoorganizzazione attraverso una adeguata delega di responsabilità.
come terza considerazione c’è quella relativa all’allineamento dei limiti attraverso delle regole condivise che devono servire a favorire l’organizzazione e non vanno intese come costrizione imposta dall’alto.
Il quarto aspetto è rappresentato dagli obiettivi che vanno chiariti: avere obiettivi precisi, misurabili e raggiungibili è la chiave per poter effettivamente conseguire dei risultati.
Sviluppare competenze è un quinto elemento di fondamentale importanza: e le competenze sono rappresentate dalla conoscenza abbinata alla disciplina che consente di metterla all’opera.
Sesto punto in considerazione è quello relativo a far crescere la struttura: consolidare e far fiorire un’organizzazione implica anche una visione nuova del modo di concepire le Human Resources.
infine, come settimo e conclusivo “precetto” c’è quello di guardare in modo correlato a quanto appena esposto e lavorare per migliorare tutto: è il concetto di kaizen presente già nella produzione Lean.
Uno degli elementi che ha maggiormente colpito chi scrive è stato questo: alcuni tra i presenti hanno preso appunti in modo molto attento scambiandosi qualche occhiata tra il sorpreso e il soddisfatto. Si trattava proababilmente di professionisti appartenenti a un mondo business “tradizionale” per i quali il Management 3.0 deve essere il risultato di una novità stimolante e positiva: in un panorama di conferenze agili, in cui molti casi si finisce per essere autoreferenziali e parlare di cose note a persone che già le conoscono, avere la presenza di “profani” che ricevono degli input e ne restano soddisfatti va vista in modo estremamente positivo.
Marco Dussin. Business for punks
Quello di Marco Dussin è stato probabilmente l’intervento più divertente e obliquo: parlare di musica punk e birra artigianale, sulle prime, non sembra il tipo di talk [14] adatto a un pubblico di manager; ma sbaglierebbe di grosso chi si fermasse alle prime impressioni. Cerchiamo di capire il perché, anche se sarà davvero difficile riportare al lettore gli input e i suggerimenti che in molti tra i presenti hanno ricevuto.
La prima parte dell’intervento riassume in modo schematico ma anche con qualche aneddoto spassoso, la nascita e lo sviluppo della musica punk nella seconda metà degli anni Settanta, presentando alcuni dei gruppi musicali più significativi: gli statunitensi Ramones e il loro approccio immediato alla musica; i Sex Pistols, con il loro legame alla linea di abbigliamento e accessori creata nel negozio del manager Malcolm McLaren, e con la figura di Sid Vicious perfetta per i media; i Clash, più “musicisti” nel senso strutturato del termine, fatto che li porterà ad avere una reale carriera musicale finendo anche in classifica. Non manca un accenno ai nostrani CCCP – Fedeli alla linea.
La seconda parte dell’intervento è invece dedicato alla birra artigianale e a un marchio come quello di Brewdog che si è ormai affermato in modo globale con una catena di birrerie diffusa in molte nazioni: i creatori di questi prodotti sono gli autori del libro Business for punks che dà il titolo alla presentazione.
In tutto questo, ciò che si intende comunicare, è che dietro a fenomeni che “escono dal seminato” si celano comunque dei modelli di business piuttosto chiari che funzionano proprio per il fatto di essere innovativi e slegati da approcci preconcetti. Se nella storia dei diversi gruppi punk si possono percepire approcci differenziati che perseguono anche obiettivi diversi (guadagno immediato tramite hype vs carriera strutturata), nel caso di Brewdog due principi dichiarati forniscono ottimi spunti per la riflessione.
Il primo è relativo alla qualità del prodotto: creare delle birre artigianali di buon livello. Il secondo è costruire un azionariato per appassionati (“equity for punks”) in cui coloro che sottoscrivono la loro adesione non ricevono indietro un interesse economico ma hanno la possibilità di provare certi nuovi prodotti in anteprima, o ricevono degli sconti, oppure possono partecipare a concerti punk dedicati specificamente a loro. Questa è la dimostrazione del fatto che il valore non necessariamente corrisponde con il denaro, che in certi casi, il modello “fans, not customers” funziona benissimo: occorre cercare degli appassionati piuttosto che dei clienti. Infine, uno dei motti dei creatori di Brewdog diventa uno spunto di riflessione che chiunque intenda fare impresa dovrebbe tenere presente in un panorama come quello attuale: è preferibile essere sé stessi piuttosto che tentare di essere “fighi”.
È chiaro come per questo talk si sia trattato di una intelligente e interessante “provocazione”: ma è apparso altrettanto chiaro agli occhi di molti presenti come tale proposta possa avere un seguito quando si passi magari a un’illustrazione molto più strutturata tali modelli di business nell’ambito di una consulenza volta a definire la creazione di un prodotto o di un modello di business.
In conclusione
La giornata è stata impegnativa, ma è passata davvero in un soffio. Ci sono stati ovviamente alcuni punti che meritano una “revisione” per migliorare ulteriormente l’evento. Il primo, e l’abbiamo già detto in apertura di articolo, è quello di ridurre la densità delle attività proposte: nessuno dice di tornare a formule di conferenza in cui c’era un’unica e monotona sequenza di interventi, ma probabilmente qualche aggiustamento potrebbe aiutare, per esempio evitando di collocare workshop e talk in contemporanea.
L’altro aspetto che richiederà lavoro è di caratterizzare ancor di più il pubblico di un evento come questo, che nasce, dichiaratamente, per raggiungere il mondo business delle grandi aziende e della Pubblica Amministrazione. E questo può essere fatto con un’opera meticolosa di preparazione durante tutto l’anno che abbia come destinatari principali proprio i manager di enti pubblici e aziende corporate: come peraltro è accaduto in alcuni casi, se anche solo qualche “estraneo” al mondo Lean/Agile resta incuriosito da un talk e decide di approfondire le tematiche, la missione è compiuta.
Al prossimo ABD, quindi, ci auguriamo di vedere ancor più persone di chiara provenienza business, pronte a dialogare e a collaborare in un’ottica agile.