Assessment 4.0 per Millennials
Si possono usare modalità innovative per valutare i tratti di personalità e le competenze relazionali di un soggetto? È possibile utilizzare strumenti come il videogioco per la ricerca e la selezione di personale adatto a un determinato contesto professionale?
In questo articolo ripercorriamo le modalità e gli step con cui siamo arrivati a definire il modello teorico alla base del #PlayYourTest, coinvolgendo 981 soggetti all’interno del contesto dinamico e interattivo dei Job Meeting.
In questa prima fase, il team di ricerca si è concentrato sulla verifica di una possibile relazione tra uno dei costrutti teorici di personalità più conosciuti ed utilizzati nel mondo HR (il Modello dei Big Five), le abitudini (in termini di utilizzo e frequenza) e le preferenze di gioco (categorie e meccaniche preferite).
Ma chi sono i Millennials?
Rassegnati a non avere una pensione, insoddisfatti e abituati ad avere tutto e subito, lo smartphone come appendice della propria mano: vengono spesso definiti cosi Millennials, generazione “nativa digitale” costituita da giovani nati tra il 1980 e i primi anni 2000, la nuova forza lavoro che risponde a logiche completamente differenti rispetto a quelle delle precedenti generazioni.
Questa definizione del “senso comune” non potrebbe essere più lontana dalla realtà dei fatti: a uno sguardo più attento i Millennials appaiono assetati di apprendimento, vogliono crescere velocemente in un ambiente all’altezza delle loro aspettative, ricercano un feedback continuo dai propri superiori, sono motivati a muoversi, ricercano organizzazioni in sintonia con i propri valori, sono innovativi e tecnologicamente evoluti, desiderosi di dare un contributo importante nei contesti dove operano.
Cresciuti a “pane e videogame”, sembrano estendere anche in ambito lavorativo logiche e regole proprie del gioco: ricercano coinvolgimento e interattività, ritengono fondamentali aspetti quali sviluppo e miglioramento delle proprie skills per ottenere risultati e riconoscimenti che possono portare al “livello successivo”.
L’importanza dei videogame
A sostegno di questo dato è importante ricordare che dal 2010 l’industria del videogioco è cresciuta esponenzialmente, soprattutto grazie ai mobile games, applicazioni (app) di gioco che possono essere avviati su dispositivi mobili.
Nel 2015, secondo una ricerca pubblicata da AESVI, l’Associazione di categoria che rappresenta l’industria dei videogiochi in Italia, il mercato dei videogiochi ha chiuso l’anno con un giro d’affari di quasi un miliardo di euro e un trend in crescita del 6,9% rispetto al 2014 [1]. Numeri positivi sono stati registrati per le vendite in tutti i segmenti di mercato, come software (+6%), console (+8,7%) e accessori (+7%).
Ha mostrato una forte espansione soprattutto il software digitale (+21,6%), che nel 2015 ha generato un fatturato di oltre 200 milioni di euro, arrivando a rappresentare il 38,5% del totale videogioco. La stima del software digitale comprende il download di gioco digitale, gli abbonamenti per giocare on line su PC e console, le carte prepagate, le microtransazioni (acquisti in-app), le espansioni di gioco digitale e le app di gioco a pagamento.
Il profilo dei videogamer
Nel 2015 erano più di 25 milioni i videogiocatori in Italia. Si tratta del 49,7% della popolazione italiana di età superiore a 14 anni, equamente distribuito tra uomini e donne. La distribuzione per fasce di età vede un’ampia diffusione in tutte le fasce d’età fino ai 54 anni.
Approfondendo l’analisi delle variabili socio-demografiche, si delinea un videogiocatore livello di istruzione medio-alto (il 49,8% dei videogiocatori è in possesso di un diploma di scuola media superiore o di una laurea, il 7,7% in più rispetto alla media nazionale). Gli obiettivi di vita dichiarati dai videogiocatori delineano inoltre un equilibrio tra esigenze professionali/familiari (raggiungimento del successo nella professione e/o nello studio, ottenimento di un lavoro sicuro e di uno stipendio dignitoso e/o avere dei figli) ed esigenze ludiche o di svago (divertimento e piaceri della vita, vacanze e sport).
Aziende e videogiochi
Le aziende non sembrano preparate a interagire con questa generazione di videogiocatori: spesso permane la credenza implicita che diventare adulti significhi abbandonare i giochi per iniziare a comportarsi seriamente. In altri termini, tra le responsabilità personali e professionali non sembra esserci spazio per il gioco, che viene ancora percepito come un’attività improduttiva, un piacere proibito che si contrappone al “doverismo” lavorativo.
E invece diventa necessario iniziare a parlare lo stesso linguaggio di questa generazione, utilizzando strumenti di valutazione in grado di comprenderne davvero la personalità e le competenze in loro possesso: cercare di ingabbiarli in schemi e definizioni antiquate utilizzando metodi tradizionali di selezione porta con sé il rischio di non sfruttare appieno un potenziale che potrebbe fare la differenza nelle logiche di mercato dei giorni nostri.
Il gioco come strumento di crescita
Da ormai lungo tempo, molti ricercatori — tra cui Winnicott [2], Piaget [3], Bruner [4], Caillois [5] e Bateson [6]—, concordano nel sostenere che il gioco fornisce uno stato mentale perfetto per favorire lo sviluppo e l’implementazione di competenze quali la capacità di apprendimento, di ragionamento, la creatività e il problem solving.
Per questo motivo, negli ultimi decenni, molte aziende hanno deciso di inserire nei loro percorsi di formazione attività quali business games e serious games, spesso in versione analogica, finalizzati al team building, allo sviluppo di competenze trasversali e di strategie per una migliore azione di vendita dei propri prodotti.
Videogiochi e apprendimento
In particolare, secondo alcune ricerche scientifiche l’apprendimento risulta più efficace quando è attivo, coinvolgente, esperienziale e in grado di fornire feedback immediati: tutte queste caratteristiche sono pienamente soddisfatte dai videogiochi. Per loro stessa definizione, i videogiochi sono software che, per mezzo di una grafica sofisticata, simulano situazioni di carattere ludico — competizioni sportive, combattimenti o sfide di vario genere ambientate nei luoghi più diversi — e consentono a uno o più giocatori di giocare sia tra loro sia contro il computer.
Rispetto ai giochi analogici, i videogiochi richiedono un set molto più complesso di capacità: sono attività maggiormente sfidanti, richiedono il contemporaneo funzionamento di molteplici funzioni cognitive, ma anche un buon quantitativo di pazienza e focalizzazione.
Ciò significa che, al contrario della percezione comune secondo cui il videogioco fornisce una gratificazione istantanea, sembra che i videogiochi ritardino la gratificazione rispetto ad altre forme di intrattenimento; inoltre, alcuni ricercatori suggeriscono che il videogioco aumenti le capacità attentive, la coordinazione occhio–mano e le capacità visuo–motorie, la sensibilità alle informazioni provenienti dalla visione periferica e la capacità di contare velocemente gli oggetti presentati.
Durante la sessione di gioco sembra esserci quindi un aumento della focalizzazione dell’attenzione, senza che questo generi una condizione di stress: si tratta di una situazione in cui i giocatori “imparano attraverso il fare”, un apprendimento esperienziale che coinvolge anche un aumento della creatività.
Videogiochi e personalità
Per quanto riguarda la personalità, gran parte della ricerca scientifica in merito alla connessione tra questa e i videogiochi si è concentrata sulla suscettibilità degli individui rispetto all’aggressività e alla violenza, mentre un ristretto numero di studi ha esplorato gli aspetti di personalità dei videogiocatori.
In questo senso, la ricerca condotta dalla Zammitto nel 2010 [7] costituisce un contributo unico per qualità e approfondimento, la cui finalità era quella di andare a sondare la personalità dei videogiocatori in relazione alle meccaniche di gioco al fine di implementare modalità più efficaci di game designing.
Il gioco come strumento per la selezione del personale
Mentre il campo dell’apprendimento e dell’educazione sembra essere ormai permeato dall’utilizzo di dispositivi ludici in modo stabile e proficuo, la selezione viene affrontata ancora secondo modalità tradizionali.
Scoprire i tratti di personalità, le attitudini e le competenze di coloro che si presentano ad un processo selettivo è sicuramente un aspetto importante per le aziende e le organizzazioni, che in questo modo possono capire non soltanto se il singolo individuo è adatto per ricoprire una determinata posizione lavorativa nel breve termine, ma anche per prevedere se lo sarà nel lungo periodo.
I costi del turnover
Infatti, fare scelte azzardate porterebbe le organizzazioni a dover sostenere elevati costi a causa di un alto turnover, sia in termini di costi diretti, per l’entrata di nuovo personale, sia indiretti, legati alla riduzione della produttività e alla perdita di conoscenze in termini di opportunità e conseguenze legate all’aumento dei carichi di lavoro per i collaboratori in azienda, soddisfazione dei clienti, possibilità che altri collaboratori prendano in considerazione l’idea di andarsene, clima organizzativo.
Per avere un dato numerico, Schlesinger e Heskett, nel 1991, hanno individuato che il costo del turnover può arrivare fino al 150% del pacchetto remunerativo del personale fuoriuscito.
Rilevare tratti di personalità e competenze trasversali
La personalità si intende come quella totalità di aspetti organizzati e interconnessi tra loro, che rendono una persona unica, ossia l’insieme delle caratteristiche psichiche e delle modalità comportamentali — inclinazioni, interessi, passioni — che definiscono il nucleo delle differenze individuali e influenzano il comportamento e le modalità di ragionamento, nella molteplicità dei contesti in cui la condotta umana si sviluppa.
Durante il processo selettivo questi aspetti vengono solitamente indagati con strumenti tradizionali che si rifanno al modello dei Big Five, una teoria dei tratti sviluppata da McCrae e Costa nel 1992, secondo cui la personalità sarebbe costituita da cinque tratti, caratteristiche difficilmente modificabili che influenzano il comportamento umano in modo stabile, definiti come: estroversione, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva e apertura mentale.
Tali dimensioni sono state individuate a partire da studi psico-lessicali, secondo i quali l’uomo ha codificato in forma verbale tutte le esperienze significative per la comunità comprese, in questo caso, parole che si riferiscono alle differenze individuali: le cinque dimensioni elencate, quindi, corrisponderebbero alle macro-categorie più usate, nel linguaggio, per descrivere le diversità tra individui.
Strumenti di test basati su questo modello, come ad esempio il NEO-FFI-3, il NEO-PI-3 [8] e il BFQ-2 [9], vengono scelti nei contesti organizzativi per l’elevato livello di affidabilità e validità che riescono a garantire, che però non può essere più considerato totalmente soddisfacente.
Test tradizionali e complessità dei nuovi scenari
I test tradizionali fanno riferimento a un contesto lavorativo stabile, prevedibile, molto lontano da quello che è lo scenario delle imprese 4.0, dinamiche e in continua evoluzione, che richiedono lo sviluppo di diverse abilità, come la capacità di simbolizzazione, di anticipazione, di autoregolamentazione, la flessibilità cognitiva, il ragionamento critico, la capacità di sintesi delle informazioni rispetto ad un flusso continuo di stimoli diversi, la creatività e l’innovazione.
Analizzare le caratteristiche del lavoro, i compiti, le mansioni e le conoscenze tecniche che una persona deve possedere non basta per poter dire se questa sarà in grado di evolvere insieme all’organizzazione: è necessario andare oltre, fare un passo in più, trovare un equilibrio dinamico.
Immaginare i giochi e i videogiochi come strumento di valutazione per le competenze, le prestazioni e le caratteristiche della personalità potrebbe consentire ai ricercatori e ai responsabili delle risorse umane di entrare davvero in contatto con una generazione così complessa come i Millennials, parlando il loro stesso linguaggio.
Come nasce il #PlayYourTest?
La ricerca ha preso avvio dal chiedersi se esistesse una connessione tra i tradizionali metodi di rilevazione della personalità e modalità innovative e differenti, come ad esempio quelle basate su preferenze e abitudini di gioco.
Per sondare questa ipotesi abbiamo coinvolto 981 partecipanti, con un’età media di 23 anni, ai Job Meeting, eventi organizzati da Cesop HR Consulting Company per sostenere e favorire l’inserimento professionale dei giovani laureati. I partecipanti erano per il 60% di genere femminile; il 58% erano giocatori e, all’interno del gruppo di giocatori, il 62% si è autodescritto come “casual gamer”, ossia con una bassa frequenza di gioco mensile o settimanale, mentre il 38% si è autodefinito come “hardcore gamer”, vale a dire, con un’alta frequenza di gioco, da giornaliera a più volte al giorno.
Il test
A tutti i partecipanti è stata somministrata una batteria di test che includeva il BFA Questionnarie (Big Five Adjectives) e il “Gaming preference questionnaire” di Zammitto (2010), una checklist comprendente 50 meccaniche di gioco, rispetto alla quale il soggetto doveva rispondere indicando il suo grado di preferenza rispetto ad ogni meccanica di gioco proposta.
Le domande quindi presentavano al soggetto una serie di brevi frasi contenenti ognuna una meccanica di gioco — ad esempio, “mi piacciono i giochi in cui posso sparare”, oppure “preferisco i giochi dove devo controllare un solo avatar alla volta” — e le risposte variavano su una scala in cui il soggetto dove esprimere il proprio grado di accordo.
L’idea, ambiziosa, di fondo era esplorare l’esistenza di una correlazione tra il modello dei Big Five e aspetti di gioco quali l’utilizzo e la frequenza di gioco; la preferenza a determinate categorie di gioco; le meccaniche di gioco. In altri termini, la ricerca andava a indagare il potenziale discriminatorio rispetto ai tratti di personalità attraverso uno strumento basato sulle preferenze, abitudini e meccaniche di gioco.
I risultati, oltre a confermare le altre ipotesi di ricerca, hanno soprattutto dimostrato l’esistenza di correlazioni statisticamente significative tra le dimensioni del BFA e le meccaniche di gioco, andando a costituire un primo importante passo per la costruzione del #PlayYourTest, uno strumento per la valutazione delle soft skills interamente basato sulle meccaniche di gioco corroborato da un modello teorico scientificamente valido.
In una prospettiva futura, una più ampia diffusione dell’utilizzo di tali modalità potrebbe permettere alle Risorse Umane delle aziende di utilizzare dispositivi ad alto impatto ludico per selezionare il candidato giusto per le proprie posizioni aperte in azienda.
Ad esempio, se un’azienda sta cercando un profilo con un alto livello di coscienziosità, in base ai risultati potrebbe utilizzare un dispositivo ludico — digitale o analogico — che richiede la risoluzione di puzzle, enigmi o che presenta compiti che richiedono un elevato livello di coordinazione mano-occhio.
Conclusioni
Data la conoscenza e la facilità d’uso che i Millennials hanno rispetto ai dispositivi tecnologici e al mondo del gaming, un assessment che preveda l’utilizzo non solo di test psico-diagnostici per la valutazione degli aspetti di personalità, ma anche di dispositivi ludici per l’individuazione delle soft skills validati scientificamente potrebbe portare ad una serie di vantaggi, legati all’efficacia e al tema dell’employer branding.
In termini di efficacia della valutazione, infatti, i candidati sono pienamente coinvolti nelle attività ludiche e questo favorisce un abbassamento del loro livello d’ansia, permettendo così una piena espressione del loro reale potenziale.
Per quanto riguarda l’employer branding, l’azienda può raggiungere l’obiettivo di costruire un’immagine aziendale coerente con l’identità dell’azienda come luogo di lavoro ideale, in cui si presta attenzione all’innovazione e all’esperienza del lavoratore a 360° fin dai primi contatti — tale è, ad esempio, il processo di selezione — in modo da attrarre e fidelizzare dipendenti di talento.
Elena Formica è psicologa del lavoro e facilitatrice certificata del metodo LEGO® Serious Play®. Esercita la libera professione, segue a Firenze un percorso di formazione in Psicoterapia della Gestalt e, dal 2015, collabora con Laborplay.
Se il lavoro fosse un videogame... comunicazione, marketing e processi di vendita sarebbero gli scenari di gioco da lei preferiti. Si è appassionata al serious gaming in tutte le sue forme poiché esso favorisce il coinvolgimento e la partecipazione delle persone, che arrivano a esprimere tutto il loro potenziale in modo libero e senza maschere.
Ha fatto suo il payoff di Laborplay, “Work is a serious game”: si diverte seriamente quando lavora e, come lavoro, prende il gioco in modo molto serio.
Psicologo, dottore di ricerca, autore di numerose pubblicazioni nazionali e internazionali, dal 2008 professore a contratto presso l’Università degli Studi di Firenze dove insegna Psicologia del Marketing e della Pubblicità.
Co-fondatore di LaBOr, Laboratorio di Psicologia per il Lavoro ed il Benessere Organizzativo, e LaBOr-S, Laboratorio di Psicologia per lo Sport presso il Dipartimento di Psicologia di Firenze.
Nel 2015 ha fondato — assieme ad altri 4 soci — Laborplay, dove il concetto di giochi è applicato alle realtà organizzative. Al suo interno si occupa prevalentemente di comunicazione: il suo compito è veicolare nel modo più efficiente l’immagine Laborplay entrando in empatia con utenti e aziende. La sua meccanica sono i beni virtuali, la dinamica è l'espressione di sé.
Psicologo del lavoro con pluriennale esperienza in attività come consulente organizzativo. Da sempre interessato all’applicazione di elementi ludici in contesti aziendali, cerca di tradurli quotidianamente in una pratica professionale innovativa e divertente.
Il suo lavoro è la continua ricerca delle più appropriate meccaniche ludiche da inserire nei processi aziendali. La sua meccanica è rappresentata da quei livelli che sono alla base del concetto stesso di dinamicità e differenziazione.
Assieme ad altri 4 soci fonda nel 2015 Laborplay che oltre ad essere una start-up innovativa è anche uno spin off dell’Università degli Studi di Firenze.
Precedentemente ha fatto parte di LaBOr, Laboratorio di Psicologia per il Lavoro ed il Benessere Organizzativo, e LaBOr-S, Laboratorio di Psicologia per lo Sport presso il Dipartimento di Psicologia di Firenze.