Il manager deve essere un leader?
Perché parlare di leadership in una serie di articoli dedicati al management in un contesto agile? Stiamo forse dicendo che il manger deve esser un leader? Dall’Agile Manifesto si deduce che Management e il product development team lavorano insieme. In Scrum per esempio il Product Owner è una figura del management, che per certi versi potrebbe essere considerato un’evoluzione del Project Manager [1]; ma il Product Owner è un leader? E se sì, cosa fa il PO in quanto leader?
Introdurre Agile in una organizzazione passa certamente per la definizione di una visione strategica, di una roadmap e di un coinvolgimento di tutte le figure all’interno della organizzazione. Significa partecipazione, collaborazione, lavoro di gruppo e definizione degli obiettivi comuni e personali: “di cosa ho bisogno io personalmente? E in gruppo di cosa abbiamo bisogno? Dove vogliamo andare? C’è allineamento fra tutti questi desideri? È vedendo le cose in questo contesto che il tema della leadership non solo c’entra, ma è di fondamentale importanza.
Leadership emergente
In questo senso quindi diventa secondario capire chi sia la persona più adatta a essere il leader dell’organizzazione e in particolare se debba esserlo una persona del management, se debba essere un manager — il PO? il PM? il capo? — se vada nominata ufficialmente in anticipo: la leadership non si pianifica né si impone, ma emerge.
Quel che è certo è che conoscere i vari modelli di leadership, capire quale stile sia il più efficace nella propria organizzazione è una competenza fondamentale per essere manager in una organizzazione moderna, indipendentemente che si voglia applicare Agile o meno, anche se è vero che Agile si fonda moltissimo su questi aspetti.
Un buon modo per iniziare a trattare queste tematiche è forse quello di capire cosa fa un leader.
Il mestiere del leader
Leader, dall’inglese “to lead”, è colui che, usando una metafora dal gergo ciclistico, tira il gruppo, ossia favorisce l’avanzamento verso un obiettivo, spinge ad andare avanti, è promotore di azione e iniziativa. Il leader è colui che ispira, che favorisce l’insorgere di nuove idee, è quella persona a cui gli altri all’interno di un gruppo si ispirano; “Lui è il leader del partito”, “La squadra ha vinto grazie alla energia iniettata dal suo leader”.
Una metafora calcistica
Molti ricorderanno la finale dei campionati europei di calcio che si sono disputati quest’anno (il 2016 per chi dovesse leggere questo articolo fra qualche anno): Cristiano Ronaldo, vittima di un doloroso infortunio, ha dovuto abbandonare il campo durante il primo tempo della finale che la sua squadra il Portogallo ha giocato — e poi vinto — contro la Francia.
Per tutto il campionato CR7 è stato considerato dai compagni, dai tifosi, dalla stampa e dagli appassionati, il leader di quel Portogallo: quell’infortunio fece temere a molti che il Portogallo si sarebbe in poco tempo spento e che la partita si sarebbe risolta a favore dei transalpini. Invece la squadra ebbe un moto di orgoglio, reagendo con il gioco e segnando quel goal che gli avrebbe valso la vittoria finale. Tutti ricorderanno il capitano che dalla panchina si agitava, urlava, incitava i suoi compagni, spronandoli, motivandoli; addirittura a un certo punto si è alzato di persona e, come se fosse uno dei raccattapalle, è andato, zoppicando a recuperare un pallone uscito. In molti dissero poi che la vittoria del Portogallo si doveva in buona parte a questo atteggiamento che il capitano aveva tenuto durante tutto il campionato in campo e fuori, atteggiamento che aveva mantenuto fino all’ultima partita, anche se seduto in panchina perché impossibilitato a continuare ad essere presente in campo.
In molti dicono che un quella occasione il resto della squadra mostrò doti inaspettate anche grazie alla grinta del proprio capitano; alcuni sostengono che tutti iniziarono a giocare al massimo delle proprie possibilità in segno di solidarietà al proprio capitano che li aveva portati in finale e che ora soffriva come un animale ferito a bordo campo.
Quasi tutti sono concordi nel dire che Ronaldo sia stato il leader di quella squadra, riconoscendogli il suo contribuito diretto nelle vittorie della squadra durante le prime partite del campionato grazie a gesti atletici degni di nota. Ma oltre a questo è opinione comune riconoscere a CR7 il suo ruolo di leader capace di trascinare il gruppo, di trasmettere forza, fiducia in se stessi, energia, sete di vittoria. Paradossalmente, nel momento in cui è uscito in lacrime dal campo, ormai il suo compito era terminato: i compagni di squadra sapevano cosa fare e sapevano che erano lì anche grazie a lui. Niente li avrebbe fermati. E tutto ciò sarebbe comunque ugualmente valido anche se il Portogallo non avesse vinto (in fondo ha vinto per un goal a zero).
Cosa fa un leader
Questa storia è interessante anche perché ci dà lo spunto per esaltare un’altra importante caratteristica di un leader: egli in alcuni momenti è capo — dal latino caput, “testa”, per estensione metaforica il “cervello” — del gruppo, colui che comanda, che dà sicurezza al gruppo perché “sa qual è la cosa giusta da fare”; ma un bravo leader prima di tutto si preoccupa di far crescere i propri compagni/colleghi/subalterni.
Un leader è tale se si rende dispensabile, ossia se il proprio gruppo può fare a meno di lui. La storia raccontata da David Marquet nel suo libro Turn the Ship Around!: A True Story of Turning Followers into Leaders [5] da questo punto di vista è molto interessante: l’autore del libro, ex comandante della marina USA, commenta come fosse consuetudine valutare la bontà di un comandante dai risultati della nave durante la sua guida, confrontandoli con quello che succedeva dopo il suo trasferimento ad altro incarico: il fatto che l’equipaggio peggiorasse le sue performance dopo il trasferimento del comandante, era la dimostrazione di quanto fosse bravo il vecchio comandante rispetto al nuovo. Marquet invece fa notare che un capitano è un buon capitano se, quando il comando viene passato a qualcuno dei suoi subalterni, l’equipaggio continua a migliorare e portare avanti i suoi insegnamenti. Detto altrimenti, un vero leader deve saper creare altri leader e a quel punto rendersi dispensabile.
Insegnamento, coaching, mentoring
Per fare questo spesso un leader deve alternare momenti in cui insegna in maniera analoga al maestro di una qualche disciplina, ad altri cui lavora per fare emergere delle competenze e delle consapevolezze, secondo quello che oggi definiamo con il termine inglese di coaching.
Ma, in definitiva, nel coaching si segue un approccio “antico” tipico delle maieutica socratica: nei dialoghi di Platone, la figura del suo maestro Socrate viene a più riprese descritta come quella di un uomo che non è depositario della verità, ma dichiara chiaramente di non sapere. In tal modo, Socrate si poneva nei confronti dell’interlocutore con un atteggiamento di ascolto e di dialogo: attraverso una serie di domande, e seguendo il discorso che se ne sviluppava, a poco a poco emergevano tutte le contraddizioni dell’interlocutore, in cui nasceva un dubbio da cui scaturiva un ripensamento sul suo presunto sapere, dato inizialmente per assodato.
Di certo un buon leader deve essere un mentore, ossia una persona che trasferisce un modo di essere o di agire semplicemente agendo in prima persona nel rispetto di quei principi e valori in cui crede e che vorrebbe trasferire ai suoi colleghi.
Prendendo un prestito una definizione molto in voga all’interno degli ambienti di coaching e counseling, potremmo dire che un bravo leader dovrebbe sapere (ossia conoscere le modalità con cui è possibile guidare un gruppo), saper essere (adottare comportamenti coerenti in prima persona) e saper fare (essere in grado di mettere in pratica tali modalità).
Per riassumere quanto visto fino a questo punto, e semplificando al massimo, potremmo dire che un coach è fautore del miglioramento all’interno del gruppo, spinge/tira, motiva, aiuta, guida o stimola il gruppo; tutte queste attività si declinano a seconda del modello di leadership che è adottato e del contesto.
Per comprendere cosa sia la leadership è necessario quindi affrontare due argomenti: gli stili di leadership e il concetto di leadership situazionale. Questi sono i temi che affronteremo in questi articoli dedicata al rapporto fra management e leadership.
Stili di leadership
Abbiamo detto che per essere leader è necessario applicare differenti strategie o più genericamente differenti stili di leadership: dall’insegnante al coach, dal condottiero al compagno, dal visionario al ragioniere. La letteratura specializzata negli anni ha elaborato diversi modelli — forse il più noto è il lavoro di Goleman sulla intelligenza emotiva [3] — che hanno diversi punti in comune. Tutti più o meno si basano sui differenti stili che variano dal guidare al supportare al favorire le azioni del gruppo.
In questa prima parte analizzeremo alcuni modelli, con lo scopo di fornire alcuni suggerimenti e indicazioni: non c’è uno stile migliore di un altro, ma ognuno è più efficace a seconda del contesto.
L’intelligenza emotiva e il modello di Goleman
Fra i primi ad affrontare il tema degli stili della leadership troviamo Daniel Goleman, psicologo, scrittore e giornalista statunitense famoso per il libro sull’intelligenza emotiva scritto nel 1995. Nei suoi studi, Goleman fa riferimento al tema della empatia, strumento che nasce dall’intelligenza umana ma che consente alle persone che la sanno applicare di stabilire legami più forti e profondi con gli altri.
Goleman nel libro Essere leader. Guidare gli altri grazie all’intelligenza emotiva [3] definisce 6 stili di leadership, affermando che i leader migliori e più efficaci sono proprio quelli che sono in grado di agire ispirandosi a uno o più di questi stili in funzione della situazione specifica.
Stili “positivi” e “negativi”
Quattro di questi stili sono detti positivi (visionario, coach, affiliativo e democratico): sono quelli in grado di creare empatia — per la precisione, Goleman usa il termine risonanza — fra le persone; e quindi favoriscono il miglioramento delle prestazioni.
Gli altri due, sono detti negativi (battistrada, autoritario): pur essendo efficaci in determinate situazioni, possono risultare inefficaci o addirittura dannosi se applicati in modo improprio o fuori contesto; per cui è necessario applicarli con attenzione solo in particolari situazioni.
Di seguito analizziamo brevemente gli stili di leadership proposti da Goleman.
Leader visionario
Il leader visionario è tale non perché abbia le traveggole, ma perché è una persona che ha la visione, ossia ha un’idea chiara degli obiettivi a lungo termine dell’organizzazione in cui si muove. Crea alta risonanza nel gruppo, è in grado di spingere le persone verso questo obiettivo che rende chiaro e condivide con tutti. È animato da forti ideali ed è certamente uno stile positivo. Può essere utile applicarlo quando all’interno dell’organizzazione si stanno apportando grossi cambiamenti che richiedono una visione di alto livello o un cambio di prospettiva. Il visionario traccia la rotta, quindi è utile qualora il gruppo necessiti di definire un piano o semplicemente un percorso di cambiamento.
Leader coach
L’atteggiamento del leader coach non è quello di fornire indicazioni o di tracciare la strada, ma piuttosto di fare emergere le aspirazioni del singolo in modo da poterle confrontare con gli obiettivi dei colleghi e con quelli dell’intera organizzazione. Questo lavoro di definizione e allineamento degli obiettivi di un leader coach è importante per aumentare la risonanza all’interno del gruppo e spesso anche la motivazione delle persone. Torneremo su questo importante passaggio quando parleremo di motivazione.
Il leader affiliativo
Quello affiliativo è uno stile di leadership in cui si dà molta importante all’aspetto personale, amicale. Il leader affiliativo si interessa di quello che accade alle persone fuori dal contesto dell’organizzazione in cui si opera. Questa modalità favorisce la vicinanza fra le persone e spesso è utile per sbloccare situazioni critiche, per riunire il gruppo in caso di divisioni o fratture, per superare momenti di difficoltà o forte tensione. Si faccia attenzione che spingere sulla creazione o il rafforzamento dei rapporti personali potrebbe rivelarsi incompatibile con il modello organizzativo: si pensi alle difficoltà nel gestire un’amicizia in contesto fortemente gerarchico e militaresco con il tipico caso del capo che deve rimproverare/punire quello che fuori dal lavoro è il proprio compagno di sport o di passatempi; peggio ancora quando ci sono di mezzo rapporti di parentela. Questo tipo di leadership non tiene conto inoltre di quelle situazioni in cui le persone desiderano tenere separata la sfera personale da quella del gruppo.
Il leader democratico
È una figura che agevola le decisioni del gruppo tramite una strategia collaborativa ed emergente, dove tutti possono esprimere la loro opinione. È uno stile utile per agevolare il feedback fra le persone: facilita un clima propositivo e stimola quindi l’insorgere di nuove idee. Può essere invece particolarmente inefficace, addirittura dannoso, quando il gruppo sperimenti momenti particolarmente difficili o incerti: in questi casi potrebbero funzionare meglio altri stili, come quello autoritario o del battistrada (vedi sotto).
Il leader battistrada
L’approccio battistrada è probabilmente la definizione più vicina al significato della parola “leader” (“colui che guida”). È utile da applicare quando il gruppo si trovi in difficoltà e non riesca a procedere dalla posizione attuale per le ragioni più disparate: stanchezza, stress, incertezza sul futuro, paura, imposizioni dall’alto. In questi casi spesso, può capitare che i membri di un team necessitino, anzi addirittura richiedano, il contributo di un leader forte. A volte le persone del team sembrano quasi dire: “Non sappiamo da che parte andare, siamo completamente in alto mare e siamo preoccupati. Guidaci tu”. Non è detto che questo atteggiamento sia dovuto all’indole delle persone. In contesti di forte stress, preoccupazione o addirittura panico — azienda sull’orlo del fallimento, importante progetto a rischio — anche le persone che normalmente mostrano di preferire, e di saper mettere in pratica, un approccio basato sull’iniziativa dei singoli, sulla collaborazione, e sulla autoorganizzazione — tipico della leadership democratica — possono richiedere l’intervento di un leader forte che li aiuti. Occorre la massima attenzione alla situazione in cui questo stile di leadership viene applicato: quando sia troppo rude o impositivo o ripetuto in casi che non lo richiederebbero, il leader battistrada corre il grave rischio di inibire ogni forma di crescita del gruppo, finendo per essere un “comandante” che ottiene l’attenzione delle persone solo perché queste gli devono obbedienza.
Leader autoritario
Il leader autoritario è lo stile forse più comunemente noto: quello del condottiero, dell’eroe. È quel tipo di persona che guida il gruppo, impartendo ordini o più genericamente dando direttive; questo modello racchiude in sé sia aspetti positivi che negativi. Fin dalla metà del secolo scorso questo modello ci è stato proposto in migliaia di film hollywoodiani come il solo in grado di far funzionare un gruppo: si pensi alle scene dei soldati a cavallo con il capitano di fronte a tutti a guidare l’attacco. In un contesto di emergenza oppure quando si debba svolgere un compito semplice, una leaderhip autoritaria può risultare più efficace. Si pensi per esempio al caso in cui si debba svolgere una attività non complicata come pulire una stanza: in questo caso non è necessario applicare un modello democratico o da coach per far emergere la strategia migliore per svolgere il lavoro o per comprendere le aspettative di tutte persone; in questo caso può essere più efficace seguire le indicazioni di un coordinatore che impartisce le istruzioni ai vari operatori. In alcuni casi invece questo modello risulta inefficace o addirittura dannoso. La teoria della complessità ci dice che in un dominio complesso/caotico [4], è del utopistico pensare che il capo sappia quale sia la strategia di intervento migliore. Un approccio collaborativo in cui tutto il team decide è certamente più efficace. In questo senso è preferibile un approccio democratico o da coach: in tal senso il leader è un facilitatore delle dinamiche emergenti e decisionali del gruppo. Da notare che un modello autoritario, applicato in modo inopportuno o nel momento sbagliato può essere inutile o addirittura dannoso per il gruppo: può creare dissonanza, malumore, frustrazione, e, in definitiva, non fa crescere il gruppo.
Empatia e risonanza
Nel suo libro, Goleman insiste molto sull’importanza della risonanza fra le persone:
“[…] primi quattro stili di leadership — visionario, coach, affiliativo e democratico — sono infallibili fonti di risonanza. Ognuno di essi esercita nel modo che gli è proprio un forte impatto positivo sul clima emozionale di un’organizzazione. Gli ultimi due stili — «battistrada» e autoritario — trovano anch’essi spazio nel repertorio di un leader, ma devono essere usati con prudenza e abilità affinché possano esercitare un impatto positivo”.
La Servant leadership e la Host leadership
Parlando di stili di leadership in una serie di articoli che parla di Agile, non si può non citare la figura dello Scrum Master, uno dei ruoli definiti all’interno di uno Scrum Team. Lo Scrum Master implementa un modo di essere leader leggermente differente da quanto visto fino ad ora: non è un visionario, né un condottiero, dato che gli obiettivi e le azioni necessarie per raggiungerli sono decise e messe in atto da tutto il team stesso. Per quanto possibile, dovrebbe cercare di mantenere un atteggiamento distaccato, quindi no allo stile affiliativo. Di certo non è l’arbitro giudicante il lavoro dei colleghi, quindi no allo stile autoritario. Fra i modelli di Goleman, quello che gli si avvicina maggiormente è quello del coach che facilita le discussioni e le retrospettive, aiuta l’emergenza delle opinioni e delle idee. Ad essere più precisi, lo Scrum Master è anche un coach.
Lo Scrum Master: un leader collaborativo
Lo Scrum Master è quindi un leader collaborativo: non è l’eroe che guida il suo gruppo verso la meta, ma è colui che vive dentro il gruppo, lo motiva e lo stimola; rappresenta il punto di riferimento in caso di dubbi o incertezze; non comanda; mette in evidenza errori, ma non per giudicare quanto piuttosto per capire come evitare di farli nuovamente; mette in evidenza le cose fatte bene, per rafforzare queste pratiche. In questo senso è quindi al servizio del gruppo. Per descrivere il ruolo dello Scrum Master infatti, spesso si usa la definizione di servant leader del gruppo: il significato del termine leader è da intendersi non tanto come colui che tira il gruppo, ma come la persona che facilita lo spostamento verso l’obiettivo finale.
Servant leader
La metafora del servant leader deriva dal lavoro fatto da Robert Greenleaf negli anni Settanta, e prende spunto dalla storia raccontata nel libro di Hermann Hesse, Il pellegrinaggio in Oriente (1932, prima ed. it. 1973) [6], in cui un gruppo di personaggi intraprende un lungo viaggio a piedi verso un idealizzato “Oriente”, viaggio che si svolgerà sia nello spazio che nel tempo. Uno di questi viaggiatori porta con sé il suo servitore, il quale, grazie ai suoi modi gentili ma concreti, finisce per influire sullo spirito dei viaggiatori e sulla coesione del gruppo, facendoli agire come una vera e propria squadra.
Host leader
Accanto alla metafora del servant leader, alcuni ne propongono un’altra che si ricollega al concetto di host leadership [2]. In questo caso lo host leader del gruppo può essere visto come il padrone di casa che organizza e gestisce una festa in casa: egli si preoccupa che tutto funzioni, che cibo e musica siano adeguati, controlla che nessuno esageri disturbando la festa ma che tutti partecipino e si divertano. Probabilmente lui è il punto di riferimento per le persone ma non fa pesare questo suo ruolo, conscio che la festa funziona meglio se tutti si divertono e se tutti sono allo stesso livello. Quindi è il promotore della festa quando si comincia, ma poi lascerà che la serata segua il suo corso: partecipa lui stesso alla festa e si diverte con gli altri. In determinate situazioni egli sarà il garante delle regole della festa, regole che però sono definite dal gruppo. È piuttosto facile capire come tradurre la figura dello host leader all’interno di una organizzazione. Ne parleremo in dettaglio nel prossimo articolo.
Lo Scrum Master, la leadership sistemica e la teoria della complessità
Nel suo essere leader, spesso si trova scritto che lo Scrum Master dovrebbe favorire l’empowerment del team, affermazione certamente non sbagliata, ma che necessita di un piccolo approfondimento: fare empowerment significa letteralmente rafforzare il gruppo, favorirne la crescita sia delle conoscenze che dell’autonomia e della capacità di completare il proprio lavoro. Per capire meglio questo passaggio possiamo nuovamente rifarci al libro di David Marquet [5] in cui l’autore dice una cosa molto semplice: attenzione che nel fare empowerment spesso si finisce per concentrare tutti i propri sforzi nel passare un proprio modello mentale, culturale, operativo. “Il mio desiderio è farti crescere, ti insegno come essere più forte/esperto/maturo/autonomo/…”. Desiderio degno di lode e rispetto.
Un tipico errore nel fare empowerment è quello di limitarsi a trasferire le proprie nozioni e i propri modelli comportamentali: per dirla in breve, si finisce a cercare di creare un clone di chi fa empowerment; ma, in un’ottica evolutiva o più banalmente d’innovazione, non è detto che sia una strategia vincente…Darwin avrebbe qualcosa da dire al proposito. David Marquet, infatti, nel suo libro [5] dice che il compito di un leader dovrebbe essere quello di emancipare le persone piuttosto che fare semplicemente empowerment.
Conclusione
In questo primo articolo abbiamo iniziato a vedere cosa sia la leadership, introducendo alcuni stili tipici; ne vedremo altri nel prossimo articolo dove parleremo degli stili “cinematografici” e del modello applicato in Toyota. Vedremo come si realizzano nella pratica per passare poi a parlare di leadership situazionale.
Giovanni Puliti ha lavorato per oltre 20 anni come consulente nel settore dell’IT e attualmente svolge la professione di Agile Coach. Nel 1996, insieme ad altri collaboratori, crea MokaByte, la prima rivista italiana web dedicata a Java. Autore di numerosi articoli pubblicate sia su MokaByte.it che su riviste del settore, ha partecipato a diversi progetti editoriali e prende parte regolarmente a conference in qualità di speaker. Dopo aver a lungo lavorato all’interno di progetti di web enterprise, come esperto di tecnologie e architetture, è passato a erogare consulenze in ambito di project management. Da diversi anni ha abbracciato le metodologie agili offrendo ad aziende e organizzazioni il suo supporto sia come coach agile che come business coach. È cofondatore di AgileReloaded, l’azienda italiana per il coaching agile.