MokaStoria – I parte: anno 1996 (anzi 1995)
Nell’estate del 1996 avevo da poco comprato il mio nuovo computer, un Pentium del quale non ricordo la velocità, ma avevo investito molto sulla RAM e su un velocissimo disco SCSI, una cosa inusuale per l’epoca. Decisi fare anche un extra investimento e ci montai un modem di ultima generazione, un fiammante US-Robotics da 14400 baud.
All’epoca per connettersi a internet la procedura era lenta e complicata. Dopo aver detto al modem il dialetto da utilizzare per la comunicazione (quegli odiosi comandi AT), si doveva comporre il numero del provider locale, impostare alcuni parametri di navigazione (che se usavi Windows dovevi fare tramite un programma esterno, Trumpet); il browser era Mosaic, che aveva una interfaccia grafica che oggi appare preistorica.
L’anno precedente avevo scoperto che l’HTML era un linguaggio con il quale anche io avrei potuto creare le prime pagine web e farmi un portale (si usava dire così). Una celebre pubblicità su una delle poche riviste cartacee recitava “se pensi che htmllista sia una offesa, questo annuncio di lavoro non fa per te”.
Già perché allora ci si informava sulle riviste cartacee che uscivano una volta al mese: Computer Programming e Dev (dove poi con grande emozione andai a collaborare per un po’) ma anche InternetNews, Dott.Dobs, e Byte, MicroComputer (rimanere informati sugli ultimi processori era un dovere) e con un vezzo un po’ radical chip la francese SVM (dove qualche anno dopo scopri i NeXT computer).
Presto realizzai che non mi bastava usare internet come utente finale. Avevo voglia di esserne un costruttore attivo: può sembrare una affermazione un po’ presuntuosa, ma questo era esattamente il mio pensiero fisso di quei giorni. Fu così che decisi di mettermi a studiare l’HTML e pubblicare le prime pagine web. Decisi di creare una galleria virtuale con quadri e foto di amici.
All’epoca pubblicare un sito non era un processo affatto semplice: dopo aver studiato i principi base del linguaggio, era necessario imparare un po’ di rudimenti di TCP e Unix, trovare uno spazio disco fisicamente connesso alla rete agganciarci un server web (Apache stava nascendo ed era molto rattoppato, già perché Apache vuol dire A patched web server ) e poi era necessario collegarlo a un URL. Il mio primo sito web fu una galleria d’arte contenente alcuni quadri di amici e aveva un indirizzo lunghissimo veramente poco mnemonico.
Poco dopo iniziai a interessarmi a un nuovo linguaggio che stava nascendo: Java (anche se inizialmente si chiamava Oak). Ne avevo letto su una rivista carteca, Byte, e nel CD allegato trovai i primi strumenti di lavoro, insieme all’unica forma di documentazione disponibile: il JavaDoc del JDK API (eravamo alla alfa 0.9) e il Java Tutorial. Dopo alcune notti insonne, riuscii a creare la mia prima applet: una animazione fatta tramite alcune GIF di Duke (la mascotte di Java) mandate in sequenza rapida.
Sempre alla ricerca di nuove informazioni, il giornalaio era la fonte di informazioni migliore: la rivista Byte usciva una volta al mese e l’aspettavo con impazienza, perché sul CD c’erano gli aggiornamenti del JDK, troppo grande per essere scaricato col modem di casa.
In quel periodo mi iscrissi a strong-java una mailing list americana dedicata a discussioni di livello avanzato su Java. Ricordo ancora come il mio primo messaggio postato mi procurò il rimprovero dal maintainer visto il livello della mia domanda (troppo basilare) che non si adattava al nome della lista.
Su strong-java conobbi Daniela Ruggeri, da San Francisco Marie Alm (che ho avuto modo di andare a trovare più di una volta), Fabrizio Giudici. Poco dopo si unì Massimo Carli conosciuto su java-it la mailing list nata nel frattempo sul sito Infomedia.
In quel periodo iniziammo a scambiarci i primi messaggi e un po’ per scherzo un po’ per incoscienza cominciammo ad alimentare l’idea di creare qualcosa sul web. Ci stavamo affascinando a Java tanto che presto divenne il tema principale di tutto il sito. Mancava però la cosa più importante, ovvero l’impostazione da dare al sito.
Inizialmente pensammo ad un repository di informazioni, un registro di link, una FAQ. Ma erano tutte cose che erano già state fatte.
Non so come ma a un certo punto dissi agli altri: “Una rivista italiana su Java non esiste. Facciamola”.
Mi misi subito a pensare ad un logo e trovai uno spazio web da qualche parte. Scelsi il nome MokaByte in linea con la missione della rivista: offrire ai lettori una versione italiana di Java. Su una rivista di moda trovai una pubblicità di due dita che reggono il chicco di caffè (notizia tenuta segreta per anni).
Era il settembre 1996: nasceva il numero zero di MokaByte.
Ripensando oggi, con la coscienza di cosa significhi coordinare una redazione, posso rendermi conto di quanto fummo incoscienti. Non sapevamo nulla di editing di articoli ne di come si gestisce una redazione, di processo editoriale e di altre cose che i giornalisti seri facevano sulle riviste vere (rigorosamente cartacee).
I primi anni della rivista furono frenetici: di giorno lavoravo come consulente (sedicente) esperto di Java (il mercato stava iniziando a richiedere questo tipo di consulenza), di notte coordinavo gli articolisti sparsi per tutto il paese. Negli anni abbiamo avuto un autore dalla Cina e diversi dagli Stati Uniti. Di fatto iniziai a fare il consulente senza alcuna particolare specializzazione ne preparazione. Nuovamente incoscienza, anche se ebbi alcuni insegnanti molto utili: Alessandro Pedone (fondatore di Infomedia) mi insegnò alcune cose su come si fa una rivista, mentre fu cui grazie a Fabrizio Giudici che imparai a fare il docente e consulente: Fabrizio ha saputo infondermi la forma mentale adatta per fare questo lavoro. A lui devo molto.
La gente apprezzava la nostra indipendenza, neutralità e imparzialità. A volte sorridevano quando parlavamo dei possibili sbocchi tecnologici di Java quando un giorno avremmo trovato JVM dentro telefonini (oggi si dice semplicemente telefono), nelle auto e nei frigoriferi.
Alcuni poi con il senno di poi mi hanno attribuito un grande coraggio (fare impresa partendo da zero, ovvero senza essere dipendente di una azienda che ti offre protezione e continuità); non so se sia stato coraggio, so solo che sentivo forte l’esigenza di farlo. E ho seguito il mio istinto.
Da quel momento la storia di MokaByte è stata una continua crescita fino a diventare il punto di riferimento dei programmatori italiani su Java.
Nel 2000 feci un altro importante incontro, di quelli che possono dare una svolta importante alla tua vita professionale (e non): Claudio Bergamini, fondatore di Imola Informatica, un altro mentore dal quale molto ho imparato. In quegli anni la collaborazione con Imola Informatica e la lungimiranza imprenditoriale di Claudio hanno dato vita ad una nuovo capitolo della storia di MokaByte. Nacque una azienda vera e propria che negli anni ha erogato consulenze, fatto corsi, organizzato eventi.
Fra le molte cose successe in quel periodo, i primi anni 2000, ricordo con piacere il fermento che girava intorno alla comunità Java: le Italian Java Conference (organizzate da Sun Microsystems), l’Italian Java Tour (organizzato da MokaByte), i libri scritti e tradotti dai nostri collaboratori, il Manuale Pratico di Java (che con le 2500 copie fu quasi un successo editoriale) e il continuo fermento all’interno delle mailing list, dei forum.
Non c’erano i social, ma nacque in Italia quel clima spumeggiante e stimolante che ha caratterizzato quegli anni. Internet stava affermandosi sempre più e in molti eravamo certi che avrebbe cambiato le nostre vite. Di fatto così è stato. E noi contribuimmo a questa rivoluzione.
Questa è la prima parte della storia… Ora facciamo una pausa di circa 10 anni, anni in cui sono successe molte cose.
MokaStoria – II parte: anno 2016
Nel 2016 il mondo IT è cambiato radicalmente (anche se forse sta tornando agli albori, si veda l’articolo di Marco Piraccini). Java è oggi una tecnologia consolidata, potremmo dire legacy. I ragazzi che passano le nottate a studiare e sviluppare app (fare le app è l’equivalente del nostro fare i siti), usano tecnologie completamente differenti. Oggi raccontare a un programmatore che si conosce Java fin dalla sua creazione, spesso provoca reazioni simili a quelle che avevamo noi quando si incontrava un programmatore Cobol.
MokaByte è diventata grande, ora fa parte integrante del Gruppo Imola; è cambiato il claim: un tempo era “La prima rivista web italiana dedicata a Java”. Oggi è un più generalista “Dal 1996, architetture, metodologie, sviluppo software”.
Io non mi occupo quasi più di consulenza tecnologica: dopo esser aver svolto anni di consulenze sulle architetture entrprise e poi sul project management, ho abbracciato in toto le metodologie agili. Oggi, ebbene si, sono un coach agile (mestiere difficile da spiegare; ci ho provato qui).
Ma se è vero che Java non è più la tecnologia sull’onda, altre cose sono nel focus del magazine. Negli anni abbiamo parlato di architetture a servizi (oggi meglio dire microservizi, altrimenti di nuovo i giovani ti guardano come se tu fossi un dinosauro), di semantic web, di project management, di aspetti sociali dell’IT, di soft skill, spaziando sulle tematiche più disparate ma accomunate da un unico fattore: tematiche innovative e di frontiera.
Fra le innovazioni del momento, trovo certamente molto interessante quanto sta accadendo nella comunità agile: pur non essendo certamente la sola novità di rilievo di questi ultimi anni, è quella che conosco meglio visto il mio coinvolgimento diretto; per questo motivo, mi vedo testimone nuovamente, a distanza di 20 anni, di un altro importante momento storico. Sto osservando nella comunità agile, lo stesso clima e le sensazioni vissute quando Java (e internet) stavano nascendo. Lo stesso entusiasmo nel contribuire alla nascita di qualcosa che potrebbe cambiare le nostre vite. Le conferenze di oggi come Agile Day o BetterSoftware hanno molti punti in comune (per spirito e tipologia di partecipanti) con le varie Italian Java Conference o Developers Forum di Infomedia.
Trovo fra i partecipanti ai vari talk o workshop la stessa voglia di condividere, di imparare, di crescere tutti insieme. E di aiutarsi.
E’ anche grazie a questo spirito che oggi, a distanza di 20 anni, trovo ancora molto stimolante spendere del tempo nello scrivere articoli e libri (in ogni ritaglio di tempo, durante i viaggi in treno oppure più semplicemente di notte): è un mestiere molto faticoso, ma è fondamentale per me, sia per condividere che per organizzare le idee e le cose che studio. Spero che sia utile anche per i lettori.
Pensiero finale
In questi giorni di lavoro prima dell’uscita del numero del 20’ anno di MokaByte sto coordinando la stesura dei vari articoli degli articolisti storici che in questi anni hanno contribuito alla crescita della rivista. Vedo che quasi tutti mi citano e in modi differenti mi ringraziano. Ne sono felice, ovviamente per me, ma anche perché è la dimostrazione che questi anni abbiamo fatto qualcosa di utile per la comunità. Vorrei chiudere con una frase riportata nel memoriale di Mirco Casoni, il quale mi ha fatto notare una cosa molto importante (e per questo lo ringrazio):
Per curiosità sono andato a cercare il numero 1 di MokaByte per vedere come è partita questa avventura e ho trovato un commento interessante:
“MokaByte nasce da un gruppo di lavoro che […] senza mai essersi visti dal vivo hanno instaurato una stretta forma di collaborazione […]
Il fatto che ci conosciamo solo attraverso la posta elettronica rappresenta per noi uno stimolo […]
La rivista è quindi anche un modo per lanciare (se ancora ce ne fosse bisogno) la filosofia di internet.”
Oggi può far sorridere, ma all’epoca era un’impostazione oltre l’immaginazione. Per spiegare cosa intendo, vi segnalo che MokaByte nasce ben 2 anni prima di Google e Tiscali. E, come è noto, in Italia internet si diffuse grazie a Tiscali e la sua offerta di accesso al web gratuito.
Anche se può apparire un po’ piaggeria, quello che ha scovato Mirco andando a curiosare nel primo numero di MokaByte, è quantomai importante; sono realmente felice che, a distanza di 20 anni, quelle parole abbiano ancora un significato.
Sono orgoglioso di quanto abbiamo fatto.
Grazie a tutti