Copertina: Foto di Pramod Tiwari su Unsplash
Avvertenza
Questa storia non è proprio vera. Ma non è affatto finta.
È il resoconto verosimile di un processo di trasformazione aziendale e organizzativa basato su fatti ed eventi reali che però sono stati opportunamente modificati, adattati e combinati per far loro assumere un significato più generale e per dare al racconto anche un valore “didattico”: la narrazione di una trasformazione organizzativa ispirata ai principi e alle pratiche Lean/Agile e alle conoscenze e alle tecniche dell’Organisational Design.
Pertanto i nomi, l’azienda, i luoghi non fanno riferimento a elementi precisamente identificabili e i personaggi sono da intendersi come di fantasia. Anche se poi magari qualche persona potrà riconoscersi in essi.
La storia comincia nei primissimi mesi del 2021 ed è tuttora in svolgimento…
In questa puntata della serie racconteremo quanto successo durante una giornata presso il cliente. Nella realtà quanto riportato si riferisce a un lavoro durato alcuni incontri. La sintesi è stata fatta per semplificare la narrazione.
Si riparte
Suona la sveglia puntata alle 05:01. È presto, non ci sono più abituato… mi alzo, con fatica, ma tutto sommato contento di iniziare questa giornata. Oggi, dopo tanto tempo, torno dal cliente in presenza, ed è un piccolo evento.
Prima di quel disgraziato febbraio 2020, era quasi la routine: giornate che partivano all’alba e — quando non si trattava di trasferte di più giorni — si concludevano a tarda sera.
Lavorare da remoto ha portato molti cambiamenti nel mio lavoro, nella mia vita. Vale per tutti.
La pandemia ha stravolto la maniera in cui lavoravamo, forzandoci a imparare o inventare nuovi modi per svolgere il nostro mestiere. Per chi, come me, fa l’agile coach, questo ha significato, fra le molte cose, trovare altri sistemi per facilitare una riunione: diverso il formato di conduzione, diversa la conversazione, diverso lo sketchnoting, diversa la lavagna, simulata ormai dagli strumenti digitali online.
Ed è ormai più di un anno che andiamo avanti così. Quindi oggi è una giornata un po’ speciale: dopo le prime riunioni online, gli accordi commerciali, la firma del contratto, oggi si inizia per davvero. In presenza. Non nascondo una certa emozione.
Stiamo scoprendo nuovi modi di lavorare?
Quando fai il consulente da tanti anni è piuttosto comune finire per adottare una personale organizzazione mentale utile per mantenere la concentrazione e l’ordine quando passi da un cliente all’altro. In un lavoro che cambia fortemente di giorno in giorno, di cliente in cliente, adottare determinati meccanismi ti aiuta a non perdere troppo tempo per tenere mentalmente tutto sotto controllo. Vale per le cose importanti, ad esempio il modo di prendere gli appunti di una riunione e di “trascrivere” lo svolgimento di una giornata di inception.
Ma vale anche per quelle piccole cose che riguardano l’organizzazione pratica e logistica della tua giornata. Piccole abitudini, a volte manie, che ti aiutano a risparmiare energie mentali quando ti alzi la mattina alle cinque e devi prepararti magari per prendere un treno entro tre quarti d’ora o poco più. Le chiavi di casa sempre nella tasca destra, il case coi cavetti sotto e gli accessori separati da quelli del PC.
Dopo la colazione ho poco tempo per mettermi in auto, per cui ripasso velocemente la lista:
- Nella borsa c’è tutto il materiale che mi serve per il workshop?
- Le batterie dell’auto si sono ricaricate completamente?
- Ho preso tutti gli oggetti personali che porto sempre con me?
- Ci sono informazioni dell’ultima ora che non ho controllato ieri sera?
Mentre chiudo la zip dello zaino, lentamente per non fare troppo rumore, mi viene in mente uno dei principi del Manifesto Agile [1]: “Una conversazione faccia a faccia è il modo più efficiente e più efficace per comunicare con il team e all’interno del team”… Già, il faccia a faccia… Che però vuol dire levatacce, lunghe trasferte, via da casa molti giorni a settimana. Il lavoro da remoto in fondo non ha funzionato così male in questo periodo di lockdown. E se il Manifesto avesse torto?
Le modalità di conversazione e gli strumenti digitali, che in questo periodo abbiamo imparato a usare bene, tutto sommato funzionano. Abbiamo fatto moltissime inception di progetto, meeting Scrum, riunioni con i manager, tanta formazione. Abbiamo fatto tutto quello che si faceva prima in presenza. Certo… molte cose sono meglio in presenza: la comunicazione è sicuramente più efficace. Ma altre ne hanno tratto giovamento, dai calendari più flessibili alla possibilità di seguire più clienti o progetti. Quello che prima voleva dire ore e ore di viaggio, adesso si può fare con un semplice click: ad esempio assistere un collega, sfruttando un’ora in cui non si è occupati con il proprio gruppo.
Poi, di sicuro, spesso siamo anche arrivati a estremi non praticabili, con calendari troppo frazionati, con giornate spese passando da una riunione all’altra. Con mille inviti ad altrettante riunioni online che si accavallavano e con la testa che ti esplodeva a fine giornata. Abbiamo dovuto imparare a darci delle regole.
Mentre queste riflessioni tentano di indebolire il mio entusiasmo per il ritorno in presenza, mi accorgo che si avvicina l’ora della partenza e che devo sbrigarmi a partire.
Ultimissimi preparativi e posso andare.
On the road again
Guido su un’autostrada che è nuovamente abbastanza affollata, facendo almeno in questo rimpiangere i mesi del primo lockdown. Ma tutto sommato oggi sono contento di andare in trasferta; spero che tutto fili liscio. Perché, se ti alzi alle 5.01 del mattino, ti metti in auto per tre ore, speri che poi la trasferta valga la pena. A volte dipende da me, a volte qualche imprevisto fa saltare riunioni o le fa rimandare. Se la riunione è online, ti spiace meno: ricalendarizzare l’incontro, pur con tutte le attenzioni per farlo rientrare all’interno dell’agenda, non è così problematico. Essere in presenza, poi, spesso genera un effetto di diluizione delle conversazioni. Dal dover per forza intrattenere un ospite che si è alzato alle cinque di mattina — fatto sicuramente apprezzabile — alle chiacchiere che immancabilmente si fanno nel corridoio alla macchinetta del caffé o prima di iniziare una riunione.
Mentre penso a tutto questo, i chilometri scorrono veloci e mi rendo conto che ormai sono quasi arrivato nella sede. Quando entro nel parcheggio vengo piacevolmente sorpreso dal numero e dalla tipologia di colonnine per la ricarica elettrica che trovo. Collego il cavo, controllo l’app per la ricarica e mi avvio verso gli uffici. Mi ero dimenticato di quanto potessero pesare zaino e borsa con i materiali per le attività. In questo, sicuramente, i tool online sono molto più agevoli.
(Ri)conoscersi di persona
Entro nell’area di accoglienza, dove accanto al bancone ci sono dispenser di gel sanificante. Tutti indossano la mascherina ed evitano contatti stretti. Pur con tutte queste restrizioni, si vede comunque la volontà di un graduale ritorno alla normalità una volta che la crisi pandemica sarà superata definitivamente.
In questa azienda, come in quasi tutte in questo periodo di semi-lockdown colorati, si lavora con una modalità mista: le persone lavorano da remoto a rotazione per permettere una certa alternanza e convivenza. Questo “diradamento” si percepisce e devo dire che risulta piacevole. Non c’è la confusione o l’affollamento di prima, ma nemmeno l’effetto ghost town che invece caratterizza altre organizzazioni in cui, al momento, ancora non è rientrato quasi nessuno.
All’ingresso dopo una breve registrazione, mi viene indicata la zona dei divani dove posso aspettare l’incaricato che viene a “prelevarmi” per portarmi nella sala del workshop.
Mi siedo e osservo alcune auto “parcheggiate” nello showroom interno. La versione corsaiola da rally ostenta muscoli e agilità, mentre al suo fianco un futuristico EV ammicca a voler anticipare un futuro prossimo nemmeno troppo lontano. Mentre mi perdo ad osservare le linee sinuose e contrapposte dei due modelli una voce rompe il silenzio: “Buongiorno Giovanni. Benvenuto. È andato bene il viaggio?”. È Alessio, il direttore tecnico. Noterò come in questa azienda i nomi dei ruoli sono declinati in italiano: figure come il CEO e il CTO tornano a essere l’Amministratore Delegato e il Direttore Tecnico.
La mascherina copre il suo volto: vedo solo gli occhi, ma si capisce che mi sta sorridendo, un sorriso di benvenuto. Abbiamo imparato in questi mesi a “vedere” il sorriso di una persona anche se indossa la protezione: lo capiamo dagli occhi, dalle sopracciglia, dalla flessione dei muscoli sotto la mascherina.
Ci scambiamo i soliti convenevoli di rito. Il clima dell’azienda è molto cordiale e amicale. Sto parlando con un dirigente ai vertici di una importante multinazionale del settore automobilistico, ma ci diamo del tu e il clima della conversazione è subito molto informale.
Agli ascensori incontriamo un piccolo gruppo di persone in coda che si parlano alla distanza. Lentamente la fila si riduce, entriamo in ascensore due per volta: le norme anti-Covid ancora impongono strette regole comportamentali. All’uscita al quarto piano incontro gli altri che ho avuto modo di conoscere in video. Mi fa una strana sensazione stare in mezzo a tutte quelle persone.
Nonostante il lockdown più duro sia finito da quasi un anno e viviamo adesso secondo le regole legate dal colore della propria Regione, non ho ripreso a pieno la vita sociale di prima. Vivo in campagna e il tempo spesso lo trascorro andando nel bosco, non certo in un ufficio con altre persone. Sono un po’ impacciato. Loro invece sono più abituati di me. La differenza tra me e loro si nota. Io la noto.
Ripenso al fatto che qui i ruoli sono in italiano: non è una cosa banale. Anche da questi dettagli si inizia a comprendere la cultura dell’azienda. Ed entrare nella cultura aziendale di un’organizzazione, cercando di capirla e non di negarla o stravolgerla, è uno dei primi passi per orientare una trasformazione digitale. Ma lo si può fare solo a partire da una profonda conoscenza delle caratteristiche e delle motivazioni di tale cultura aziendale.
Alessio porta la conversazione sul programma della giornata: “Oggi gli invitati sono riusciti a liberarsi e sono tutti presenti. Siamo tutti curiosi di capire come procederemo e anche di vedere cosa verrà fuori alla fine…”.
Concentrarsi sulle soluzioni
“Buongiorno, grazie per essere presenti. Oggi cercheremo di capire insieme qual è l’obiettivo di questo percorso che stiamo per iniziare…”. Comincio a parlare facendo un classico setting the stage: è la fase in cui si rompe il ghiaccio, si condividono le regole di lavoro, si stabiliscono ruoli, confini e obiettivi. Mi rendo conto quasi subito quanto sia impegnativo parlare con la mascherina. Anche se ho parlato mille volte in pubblico, oggi è decisamente faticoso.
La conversazione comincia a decollare e i miei interlocutori non fanno fatica a elencare una cascata di problemi e di possibili cause; è una fase piuttosto tipica che segue uno schema che ormai conosco piuttosto bene. Loro sono “dentro” questi problemi da chissà quanto tempo: è giusto lasciare spazio alla discussione e alla condivisione delle difficoltà.
Ma, dopo un po’, mi accorgo che siamo arrivati alla “polemica ricorsiva”: la mia collega psicoterapeuta mi ha insegnato a riconoscerla. È la fase in cui la conversazione procede con una serie di considerazioni e commenti che rimbalzano fra loro senza portare alcun progresso significativo. È arrivato il momento di intervenire.
Solution focus
Provo a proporre un approccio completamente differente, spostando il focus della conversazione verso l’ambito della soluzione: “Se vi va, vi propongo di fare una specie di gioco. Oggi siamo qui per iniziare un percorso di trasformazione. Allora, immaginate che, quando siete entrati in questa stanza passando da quella porta, avete in realtà varcato un portale temporale e ora è come se fossimo nel futuro. Non è importante quanto avanti nel futuro, ma sappiamo che siamo abbastanza avanti per festeggiare il completamento di questo percorso di trasformazione. Lo festeggiamo perché abbiamo avuto successo. Tutti i problemi del passato sono stati risolti. Oggi abbiamo un’azienda completamente differente. Come descrivereste questa azienda?”
Questa tecnica di coaching, ispirata al concetto di Solution Focus, è piuttosto interessante perché, se si riesce a creare la giusta atmosfera, succedono cose strane. Le persone si rilassano, smettono di pensare ai problemi e iniziano a parlare di soluzioni. Per farla funzionare ci vuole tanto mestiere, bisogna creare la giusta atmosfera, e servono la calma e il tempo necessario. Ammetto che non è la tecnica che padroneggio al meglio; il coach che me l’ha insegnata, invece, è davvero un maestro di questo metodo. Ma ormai è tardi per i ripensamenti. Spero di essere stato efficace.
Alessio mi guarda sorridente e un po’ sornione. Forse ho catturato la sua curiosità. “Bella questa cosa… spesso mi chiedo come sarebbe la nostra azienda in un futuro perfetto. Mi sono dato questa risposta: credo sarebbe ‘un qualcosa’ che permetta ai nostri clienti di usufruire dei servizi delle quattro aziende in modo semplificato e unificato. Ma non saprei proprio come arrivarci”.
“Per un momento, non preoccupiamoci del modo in cui ci arriviamo, ossia di cosa dovremmo fare per creare quello che hai chiamato correttamente il futuro perfetto. Piuttosto ti chiedo di spiegare meglio: cosa intendi dire con semplificato e unificato?”.
Alessio continua: “Avremmo una azienda che…”
Lo blocco: “Scusa se ti interrompo. Usa il presente indicativo; ti ricordi? Abbiamo passato quella porta, siamo già nel futuro, in un futuro dove abbiamo avuto successo”.
“OK, chiaro. Allora abbiamo un ambiente che tratta le informazioni in modo centralizzato e condiviso sui differenti sistemi; l’utente dispone di un sistema di accesso unico, in maniera che i dati… quelli personali, ma anche le autorizzazioni della privacy, quelli commerciali o dell’assistenza del veicolo sono sempre accessibili in modo semplice, per esempio tramite pochi click sulla app del telefono. Per esempio, un cliente può comprare un’auto, fare un finanziamento, stipulare una polizza RCA, prenotare un tagliando o un’auto sostitutiva. Oppure, quando un cliente va in officina o si collega al portale, viene immediatamente riconosciuto come la stessa persona che ha stipulato il contratto. Sul telefono ha il libretto dei tagliandi e delle revisioni e riceve una notifica quando si avvicina la prossima scadenza. Riesce a consultare e scaricare lo storico delle manutenzioni/riparazioni con la data di scadenza delle garanzie, i pagamenti effettuati, lo stato di salute dell’auto, i km percorsi, eventuali richiami.
Il tutto sempre dallo stesso strumento: app o sito web; senza doversi interrompere per cambiare, fare cinque login differenti o reinserire sempre le stesse informazioni”.
Luca lo interrompe: “…e pensa a quante cose possiamo fare con la rete di vendita. Lo smartphone potrebbe essere…”.
Si ferma, mi guarda e sorride. “Anzi no, lo smartphone è uno strumento in grado di prenotare una visita in officina per il cambio gomme; e lo si può usare per la registrazione al desk con un semplice ‘tap’ su un sensore RFID. E si paga premendo un pulsante sull’app come con Satispay al negozio”.
Intervengo: “Capisco quello che raccontate. In gergo si dice che il cliente ha un’esperienza utente fluida e senza interruzioni (frictionless, seamless)”. Prendo una pausa e poi aggiungo: “Secondo voi, in questo scenario futuro, chi è più felice fra voi e il cliente? Ovvero, a chi abbiamo creato un contesto ottimale?”
“Certamente il cliente”, risponde sicuro Alessio. “Perché, se questa cosa non la trova da noi, va altrove. Forse oggi il cliente non ci chiede queste cose e non le percepisce come bisogno perché attualmente non offriamo questi servizi. Ma se per esempio, gli dicessimo che può fare diverse operazioni molto differenti fra loro, la prima cosa che ci chiederebbe sarebbe di poterlo fare in modo semplice, fluido, senza dover saltare da un punto a un altro e senza inserire dieci volte le stesse informazioni. Del resto, il nostro metro di paragone è il 1-click buy di Amazon. Noi oggi viviamo in un mondo complesso e la semplificazione è un bisogno primario”.
Tutti si guardano contenti: questa tecnica del guardarsi proiettati nel futuro sta funzionando.
Alessio riprende la parola e conclude: “Questo scenario che abbiamo raccontato prevede l’interazione con quattro aziende differenti: la casa madre, il concessionario, la finanziaria, la compagnia assicurativa del gruppo. Ma l’utente non se ne deve preoccupare. Per lui tutto si riduce a cliccare un’icona sul suo telefono, con un solo login, un solo borsellino elettronico. Una sola conversazione”.
Ampliare l’ecosistema digitale
Il clima è positivo, per cui mi sento di rilanciare: “Non conosco nel dettaglio il vostro business, ma mentre lo stavate raccontando, me lo stavo immaginando. Il racconto funziona. Mi verrebbe da dire che questo è un bell’esempio di ecosistema digitale…”
Mi fermo un attimo e aggiungo: “Posso suggerirvi qualcosa che forse ora manca al vostro racconto?”
“Che cosa manca?”, interviene Fabio, responsabile dell’area finanziaria, che fino ad allora è stato silenziosamente attento alla conversazione.
“Altre aziende e realtà che non fanno parte del gruppo: fornitori di prodotti o servizi, terze parti in qualche modo coinvolte”, rispondo prontamente.
Alessio si “consulta” con lo sguardo con gli altri, come per avere dai colleghi una sorta di consenso prima di riprendere la parola. “Guarda, Giovanni… a questa cosa ci stiamo pensando e stiamo scoprendo che le possibilità sono davvero tante: prenotare e pagare eventi sportivi o culturali, gestire i pagamenti per la ricarica di auto elettriche, o i parcheggi, o gli alberghi… E un mondo che si spalanca, ma che ci spaventa anche… Non possiamo certo sviluppare tutto noi sui nostri sistemi…”.
Le sue preoccupazioni sono lecite. Di fatto qui non stiamo semplicemente parlando dello sviluppo di un nuovo prodotto. C’è un cambiamento del modello di business oltre che tecnologico e di processo. Quella che inizialmente si presentava come una strada in salita, sta diventando nelle loro teste una montagna difficile da scalare. Cerco di tranquillizzarlo provando a semplificare lo scenario.
“Quelli che hai citato sono tutti elementi che potrebbero certamente essere parte dell’ecosistema digitale. Questo non significa che dovete fare tutto voi. La parola ‘ecosistema’ è riferita ai prodotti ma anche e soprattutto agli attori che interagiscono e curano quei prodotti. Che entrano in tale ambiente, per offrire servizi o usarne alcuni preparati da altri. È una specie di marketplace dove i nuovi servizi sono dati come risultato della composizione di parti elementari”.
“Sembra un grande bazar digitale”, dice una voce dall’estremità della sala.
E ha ragione, perché in effetti il concetto di baratto, di mercato è parte della metafora che uso per spiegare questo concetto. “Sì, avremo modo di capirlo meglio la prossima volta che affrontiamo questo argomento”, concludo.
Definire la vision
Il resto della mattinata prosegue lavorando alla creazione di una definizione condivisa trasformando il racconto di prima in una definizione della visione strategica. Prima di andare a pranzo vorrei provare a fare una sintesi che sia condivisa da tutti per poi proseguire nel pomeriggio con i passi successivi.
Riformulazione
Prendo la parola e mi metto in testa il cappello da coach: “Mi pare che ci siamo detti un sacco di cose. È importante che quello a cui siamo giunti sia una cosa che sentite vostra. Per questo motivo vorrei provare a leggervi gli appunti che ho preso mentre parlavate. Ve li leggo a voce alta ‘per capire se ho capito’ qual è il vostro obiettivo… cercherò di non alterare il senso, ditemi se quello che dico vi torna”.
Questo è uno stratagemma dialettico e serve per fare la classica riformulazione, una tecnica volta a riproporre un concetto espresso dalla platea, provando a “pulirlo”, togliendo incisi, fronzoli, sintetizzando per arrivare a qualcosa di più lineare e funzionale. La frase “Vediamo se ho capito, provo a ridirla” serve proprio per fissare un concetto e renderlo condiviso dalla platea, senza che sia qualcosa di proposto dal consulente, ma che invece nasce dai partecipanti.
“Abbiamo detto che vogliamo creare un qualcosa che permetta ai clienti di usufruire di servizi in modo fluido e senza interruzioni. Dove l’utente vive la propria esperienza in modo armonico all’interno di ambiti differenti. Dove le applicazioni sono create per composizione (Composite Application Context) di parti esistenti, creando nuovi servizi tramite la composizione dei processi interni ed esterni all’azienda. È un nuovo modo di intendere l’azienda al fine di integrare tutte le anime, gli uffici, i reparti dell’organizzazione.”
“Sì, va bene. Vai avanti.” mi sento dire.
Continuo: “In letteratura, per descrivere quello di cui stiamo parlando, si usa sempre più spesso il concetto di Ecosistema digitale. Per creare questo ecosistema è necessario realizzare una trasformazione che potremmo chiamare Trasformazione digitale. C’è chi usa Digital Revolution. Tale trasformazione genera un ecosistema dove i prodotti sono realizzati tramite l’integrazione di flussi e di processi sia esistenti che nuovi. La Digital Revolution abilita la creazione di applicazioni in-organisation (IN-O), ossia realizzate tramite l’integrazione di servizi/prodotti interni all’azienda, e cross-organisation (X-O) vale a dire create connettendo insieme processi/servizi che fanno capo ad aziende e organizzazioni differenti.”
Vedo che la riformulazione non suscita perplessità, e allora proseguo: “Lo scopo è la creazione di un ambiente dove domanda e offerta si incontrano. Per creare questo ecosistema diventano indispensabili strumenti adeguati e un nuovo modo di lavorare. Da un lato sono necessarie metodologie capaci di individuare le necessità di un nuovo utente (digitale), dall’altra servono tecnologie abilitanti come la piattaforma digitale, l’affidabilità e la protezione delle informazioni, il cloud-native.”
Mi fermo un attimo e proietto sullo schermo questa lunga definizione che stavo leggendo.
“Vi lascio un momento per rileggerla, magari c’è qualcosa da cambiare nella forma. Ditemi però se almeno il senso vi torna.”
Lascio un po’ di minuti perché le persone leggano e assimilino quanto detto.
Alessio prende la parola: “Be’ direi che non avrei saputo dirla meglio.”
“Grazie mille. Direi che stamani abbiamo fatto un ottimo lavoro. Che ne dite se ora andiamo a mangiare? Nel pomeriggio lavoreremo insieme per estrapolare da questa definizione, che sarà la nostra vision di alto livello, degli obiettivi strategici da cui poi faremo partire altrettanti stream di lavoro operativi.”
Un pranzo “snello”
Alla mensa aziendale il cibo è gradevole e opto per un mix “romano-salutista”. Mentre sto per sedermi al tavolo con il mio vassoio, noto che alcuni posti hanno un tagliando appoggiato sopra. È lo stesso cartellino che mi hanno dato alla cassa.
Un responsabile delle pulizie si avvicina, igienizza il tavolo come da norme anti-Covid, e preleva il talloncino. Chiedo. Mi guarda con lo sguardo un po’ perplesso, poi capisce che sono ospite per la prima volta.
“Quando ha finito di mangiare, deve lasciare sul tavolo il talloncino che ha nel vassoio. Io capisco che il tavolo è stato usato e passerò a igienizzare prima che un altro si sieda”.
Semplice, veloce, efficace. Mi scappa un “Kanban! Taichi Ōno sarebbe orgoglioso”, ma lui mi guarda ancora più perplesso.
È comunque un bel segnale. Ma so che dopo questo pranzo lean mi attende un pomeriggio impegnativo, in cui i temi da digerire potrebbero essere meno leggeri di quel che ho mangiato. Però… siamo qui per questo e, per quanto mi sembri ancora strano, in presenza.
Riferimenti
[1] Agile Manifesto
https://agilemanifesto.org/iso/it/manifesto.html
[2] Agile Reloaded