Premessa: la storia e la teoria che ci sta dietro
Su MokaByte stiamo pubblicando una serie di articoli scritti nello stile del cosiddetto business novel. Si tratta di un genere piuttosto diffuso nel panorama nordamericano dell’editoria specializzata, in cui si affrontano temi di tipo professionale e aziendale non con un saggio, ma con racconti o un romanzo in cui problemi, ipotesi per risolverli, soluzioni adottate e riflessioni teoriche si intrecciano alle vicende dei personaggi, alle loro azioni.
Più che spiegare un tema, si racconta una storia, allo scopo di parlare di argomenti complessi ma con un taglio leggero e vicino all’esperienza, sperando di rendere il tutto più coinvolgente per il lettore.
In questo caso, la nostra storia parla della creazione di ecosistemi digitali e di come le organizzazioni e le aziende adottino dei cambiamenti che portano allo sviluppo di tali ecosistemi digitali.
Per agevolare la comprensione della teoria inserita all’interno del racconto, abbiamo pensato di estrapolare dalla nostra narrazione i concetti teorici e di inserirli in articoli di approfondimento a sé stanti, come quello che state leggendo.
Sia gli articoli narrativi che quelli “teorici” fanno riferimento al mio lavoro di agile coach all’interno dell’azienda di consulenza e coaching per cui opero.
Introduzione
Questo mese l’articolo di teoria presenta brevemente il framework OKR, non tanto per scrivere l’ennesima trattazione su questo strumento dato che in rete ormai si trova moltissimo materiale. Vorrei piuttosto affrontare il tema del beneficio derivante dal loro utilizzo in un contesto “trasformazionale” come quello affrontato nella serie Digital Revolution.
Che cosa sono gli OKR
Il framework OKR (Objectives and Key Results, ovvero “obiettivi e risultati chiave”) è uno strumento utile per la definizione di obiettivi (strategici e non) e delle iniziative che possono essere svolte per il raggiungimento di tali obiettivi.
Il concetto chiave qui è la misurazione dell’avvicinamento all’obiettivo finale: il risultato (chiave) di ogni iniziativa dovrebbe essere quindi misurabile, oltre che agibile e tangibile.
L’obiettivo dovrebbe essere definito tramite una descrizione qualitativa ed essere collegato con le aspirazioni di cambiamento dell’organizzazione: si tratta di un impegno sul punto di arrivo.
È di fatto una “dichiarazione di intenti” su cosa dovrebbe diventare oppure ottenere l’organizzazione. Per questo dovrebbe essere ambizioso e fonte di ispirazione, pur rimanendo all’interno della sfera di competenza, vale a dire delle cose su cui possiamo effettivamente avere un impatto con le nostre azioni.
Objective
L’obiettivo risponde a domande tipo “Dove vogliamo andare?”. Per rendere concretizzabile la risposta a questa domanda, gli obiettivi dovrebbero sempre riferirsi a uno specifico intervallo di tempo. Per esempio: “A che punto vogliamo arrivare nel prossimo trimestre?”.
Key Results
I risultati chiave rispondono invece all’interrogativo “In che modo misuriamo se ci stiamo muovendo nella direzione giusta?”.
Se gli obiettivi devono essere di alto livello e servono come ispirazione del piano d’azione i Key Results rappresentano invece i risultati necessari per ottenere l’obiettivo finale di riferimento. I risultati chiave sono descritti in maniera
- pragmatica: in che modo ci si accorge che si è raggiunto il risultato chiave?
- quantitativa
- temporalmente chiara: entro quando deve essere completato il risultato?
Personalmente amo definire i KR come risultati intermedi che “possono” contribuire alla realizzazione dell’obiettivo finale. Questo consente di rilassare il vincolo stretto che lega causa ed effetto, stimolando un approccio incrementale e pragmatico: da “Faccio questa cosa, quindi ottengo meccanicamente quel risultato” a un più realistico “Completare questa azione contribuisce al raggiungimento di quell’obiettivo”.
Un esempio
Questa dicotomia degli OKR, obiettivi e iniziative, offre una duplice visione strategica e tattica utile per creare e definire un obiettivo in modo completo, chiaro e stimolante.
Per comprendere questa duplice visione, strategica ma anche operativa, possiamo prendere in esame lo schema riportato in figura 1.
In che modo gli OKR si collegano con l’organizzazione
Il motivo per cui abbiamo deciso di includere gli OKR in questa serie di articoli che parla di trasformazioni organizzative è la loro caratteristica principale che li rende adatti a una definizione su molteplici livelli secondo uno schema gerarchico.
Per capire questo passaggio, riprendiamo l’esempio riportato nell’articolo del business novel a cui facciamo riferimento. In quel caso, al termine del workshop il gruppo di lavoro aveva individuato come obiettivo 1 l’ecosistema digitale che si completa tramite la definizione dei due KR più specifici.
Dal punto di vista organizzativo, il KR2 si traduce nell’ingaggiare probabilmente il team architetture IT per la definizione del modello di riferimento, nella realizzazione di un primo sistema funzionante di piattaforma digitale e nel connettere le “strade” (digital route) sui vari sottosistemi esistenti.
Quindi il secondo risultato chiave del primo obiettivo diventa a sua volta un obiettivo di livello organizzativo più basso, al quale contribuiscono altri KR (fig. 3).
Potenzialità del metodo OKR
È questo il fattore interessante degli OKR, ossia la possibilità di definire uno schema gerarchico ricorsivo di obiettivi e delle relative iniziative abilitanti, schema che spesso riesce a collegarsi in modo estremamente semplice con il modello organizzativo — per esempio, con le gerarchie o i dipartimenti — dell’azienda o più genericamente dell’organizzazione che vuole effettuare una trasformazione.
Interessante notare che, nonostante tale collegamento con l’organizzazione, questo modello non dà vita a un processo di azione/decisione dall’alto (command & control top-down), ma piuttosto a un sistema che favorisce la definizione dal basso di azioni che possono contribuire al raggiungimento degli obiettivi. Per questo motivo, il metodo OKR stimola la collaborazione più che la competizione o la pedissequa esecuzione.
Pertanto, è molto interessante la definizione di Key Results come quelle iniziative che contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi: in questo caso ne faccio una questione di ingaggio e motivazione delle persone più che di reale definizione del framework OKR.
Per concludere, un po’ di storia
Senza andare a ripercorrere tutta la storia, capire quando e come è nato il modello OKR potrà aiutarci a mettere ulteriormente a fuoco le sue potenzialità e i suoi sviluppi.
Generalmente l’invenzione del concetto di OKR è attribuito a Andrew Grove (1936-2016) che, durante il suo incarico di presidente di Intel, mise a punto un sistema che era sostanzialmente questo, illustrandolo poi in un libro del 1983. Alla metà degli anni Settanta, tale sistema si diffuse all’interno dell’azienda dove John Doerr (n. 1951), ai tempi uno degli addetti alle vendite dei microprocessori, lo apprese dall’inventore. Nel 1999, Doerr presentò la metodologia OKR all’appena nata Google, dove in seguito il sistema si diffuse ottenendo un ruolo di primo piano nella cultura aziendale. Da lì in poi, a poco a poco, la diffusione della metodologia è diventata globale, specialmente a partire dalla metà degli anni Dieci, che hanno visto un gran numero di articoli e libri sull’argomento.
Sta di fatto che gli OKR, pur con certi limiti, hanno alcuni grossi punti di forza: rendono la strategia globale più trasparente e inclusiva perché le persone riescono a mettere in relazione i loro sforzi e i risultati che raggiungono nel loro team con obiettivi più alti e una visione più globale.
L’idea iniziale di Grove che portò alla metodologia OKR resta ancora valida: i gruppi di lavoro raggiungono migliori risultati se pensano all’obiettivo, non a una procedura. In Intel si trattò di un cambiamento di paradigma: invece di dire ai dipendenti cosa fare nei minimi dettagli, veniva fissato un obiettivo realistico e stava poi ai dipendenti trovare il modo migliore per raggiungerlo.
In questo, ancora oggi gli OKR riescono a sviluppare tutta la loro potenza.
Giovanni Puliti ha lavorato per oltre 20 anni come consulente nel settore dell’IT e attualmente svolge la professione di Agile Coach. Nel 1996, insieme ad altri collaboratori, crea MokaByte, la prima rivista italiana web dedicata a Java. Autore di numerosi articoli pubblicate sia su MokaByte.it che su riviste del settore, ha partecipato a diversi progetti editoriali e prende parte regolarmente a conference in qualità di speaker. Dopo aver a lungo lavorato all’interno di progetti di web enterprise, come esperto di tecnologie e architetture, è passato a erogare consulenze in ambito di project management. Da diversi anni ha abbracciato le metodologie agili offrendo ad aziende e organizzazioni il suo supporto sia come coach agile che come business coach. È cofondatore di AgileReloaded, l’azienda italiana per il coaching agile.